«Una nuova èra comincia nella quale la
pura dottrina… è nelle mani dei singoli individui.
Ciascuno è separatamente responsabile.»
Lama Chöigam Trungpa
Die analytische Situation verträgt keinen Dritten, alla lettera: «La situazione analitica non tollera terzi»1.
Questa affermazione radicale, perfino brutale, troneggia sul frontone della Laienanalyse, anche se nulla può contro l’astuzia di una traduzione – quella di Cesare Musatti, nella fattispecie – che la stravolge, mitigandola e falsificandola. Musatti traduce verträgt, tollera, con “esclude” [“tollerare” = vertragen; “escludere” = ausschließen], e introduce surrettiziamente il sostantivo “presenza” (Anwesenheit o Präsenz), assente nel testo di Freud. Ne risulta un piccolo capolavoro di diplomazia politicamente corretto: “La situazione analitica esclude la presenza di terzi”. Con quali conseguenze?
- Sembra che sia “la situazione analitica” in quanto tale a “escludere” il terzo, come se si trattasse di una regola generale a cui attenersi. Ecco perché il ricorso a verträgt diviene eccessivo, incomprensibile (l’applicazione di una regola non ha niente a che fare con l’intolleranza); “esclude”, invece, è molto più appropriato, oltre che più educato e civile. Musatti non vuol sapere perché Freud ha utilizzato un termine così violento, e forse gli è del tutto indifferente o incomprensibile.
- Situation è inconfutabilmente “situazione”; ma perché Freud ha scritto “la situazione analitica” invece di scrivere “l’analisi non tollera terzi?”. La “situazione” è il contesto, il frangente, la circostanza, la contingenza della seduta d’analisi, e non l’analisi considerata nella sua astratta generalità. L’analista e l’analizzante sono “in situazione” nel senso della locuzione francese “sur le terrain”, ossia sono scesi in campo, nell’agone analitico. La scelta ponderata del termine Situation ci dice che il terzo non è escluso a priori in base all’applicazione di una regola generale, ma che nella situazione analitica, l’analista e l’analizzante si trovano continuamente alle prese con questo antagonista contro cui devono lottare, e che tende costantemente a riprodursi, a introdursi, senza che sia possibile estrometterlo una volta per tutte. E questo pone un punto interrogativo sulla sua identità: non è affatto certo che si tratti banalmente di una terza persona. Ma allora chi o cosa è questo terzo, se non è una terza persona presente?
La risposta sembra imporsi da sé, dato che costituisce lo spunto che è all’origine dello scritto di Freud: il terzo per eccellenza, il Terzo di tutti i terzi, è lo Stato, con la sua pretesa di regolamentare giuridicamente un’attività che ai tempi di Freud, per la sua novità storica, godeva ancora dei privilegi di un “vuoto giuridico” a cui si presentava l’occasione di mettere fine. Sappiamo che il pretesto è stata la denuncia contro Theodor Reik, uno dei rari “laici”, ossia non-medici, del movimento psicanalitico che praticava l’analisi. Su consiglio dello stesso Freud, Reik non aveva intrapreso gli studi di medicina, e dunque era privo dei titoli legali per esercitare una “professione” che la stragrande maggioranza degli psicanalisti stessi (allora quasi tutti medici) voleva includere senza discussioni nella medicina, come se la cosa andasse da sé. Freud ha scritto La questione dell’analisi laica per opporsi a questa pretesa.
L’argomento, triviale ma irresistibilmente, retoricamente persuasivo, che lo Stato debba “tutelare l’utenza” dai danni provocati alla salute dagli analisti “ciarlatani”, ha alimentato un dibattito che è giunto immutato fino a noi, e che ha le sue ragioni politiche, prima ancora che economiche: io naturalmente mi guarderò bene dal ritornarci sopra, perché ormai i giochi sono fatti e rien ne va plus. Mi sembra molto più interessante notare che le discussioni sul terzo, e non importa se a favore o contro l’analisi laica, presuppongono tutte che esso – si tratti di una persona estranea alla “coppia analitica” o dello Stato – sia esterno alla situazione analitica. La mia ipotesi è invece che per cogliere in tutta la sua portata l’affermazione di Freud, bisogna considerare il terzo come un prodotto interno alla situazione analitica, anche se spesso non riconosciuto.
Cominciamo con l’osservare che nella “situazione analitica” i conti non tornano mai: se non si è in tre, non si è nemmeno in due.
Chi “conta” fino a due, imprigiona l’analisi nella “coppia” analista-analizzante, esponendosi a tutti i rischi conseguenti all’affrontamento speculare, paranoico, dei due Io, la lotta hegeliana delle due “autocoscienze” che può indurre a uno sbocco mortifero come estremo rimedio per svincolarsi dall’alienazione.
Chi “conta” fino a tre – da buon lacaniano che introduce nella coppia analitica, chiusa nella sua alienazione immaginaria, il riferimento terzo al Simbolico – incappa nel veto freudiano secondo cui la situazione analitica non tollera terzi.
Dunque un’analisi non si fa in tre, ma neanche in due. Per Lacan si fa addirittura in quattro (si pensi allo “schema L”), ma qui ci atterremo rigorosamente all’analisi freudiana. Come risolvere questo paradosso, che è il paradosso stesso del transfert?
La volta scorsa ho indicato che il terzo che si produce all’“interno” della situazione analitica deve essere reperito negli scopi condivisi (anche tacitamente) tra analista e analizzante.
L’esempio per eccellenza di terzo interno all’analisi è quello della sua supposta finalità terapeutica. Lasciamo pure che l’analizzante sia libero di crederlo: questo ci permette di sbarcare il lunario; ma se l’analista ne è persuaso, se veramente si crede un dottore, allora viene creato uno dei terzi più temibili e irriducibili dell’analisi: l’alleanza terapeutica.
Da qui una prima formulazione che vi propongo: qualsiasi fine si voglia attribuire all’analisi, introduce un terzo che la corrompe e la degrada, dato che nessuno potrà mai sapere in anticipo dove conduce. Questo dovrebbe renderci prudenti nel parlare – come sento fare spesso – di “percorso analitico”, come se la via fosse già tracciata e non restasse che seguirla. Una delle questioni mai affrontate (forse appena accennata da Lacan) è che l’analizzante non deve fare nessun “progresso”, come se ci si attendesse qualcosa da un bravo alunno. È vero che l’analisi può ristagnare, ma ciò dipende dal fatto che l’analista è troppo bene insediato al suo posto, troppo bravo, troppo esperto, troppo “clinico”, troppo collaudato per avere voglia di rischiare qualcosa che lo mette in gioco a partire dal suo inconscio e non dal suo sapere.
Vania Ori ha ricordato di recente questa definizione di Freud: l’analisi consiste nello «sperimentare sulla propria pelle (Leib) la realtà dell’inconscio». Nessun fine dell’analisi è qui menzionato, se non quello di persuadersi della realtà dell’inconscio – il che non manca di lasciare delle cicatrici. E questo è anche il motivo per cui non è possibile regolamentare l’analisi. Qualsiasi professione, infatti, per avere validità giuridica deve necessariamente dichiarare all’articolo 3 del suo statuto un fine socialmente utile, lecito e ben riconoscibile; ebbene, quale albo degli psicanalisti potrebbe mai scrivere alla voce “oggetto” del suo statuto: “Il fine di una psicanalisi è sperimentare sulla propria pelle la realtà dell’inconscio”? L’analista stesso, come afferma Lacan, è un rebut de la société, uno scarto, un rifiuto della società. Per non parlare del fatto che, pur senza farne un obiettivo, ogni analisi degna di questo nome sradica il soggetto dal conformismo e dalla connivenza con il discorso comune. Ora, «sperimentare sulla propria pelle la realtà dell’inconscio» è una delle definizioni possibili del transfert, una variante più cruda della sua definizione canonica: «Il transfert è la messa in atto della realtà dell’inconscio».
Sebbene sia un fenomeno comune e generale, il transfert, nella sua accezione prettamente psicanalitica, ha una sua specificità irriducibile, che non si limita alla passione amorosa. In cosa consiste questa sua peculiarità?
Il primo atto analitico – la pietra angolare di un’analisi, il suo atto fondativo – è di imporre inderogabilmente all’analizzante di attenersi alla regola fondamentale di associare liberamente, cioè di dire la prima cosa che gli viene in mente, rinunciando a un senso, a un orientamento, a una finalità del suo discorso, che viene così destituito da ogni assertività.
La prima conseguenza dell’imposizione di parlare a vanvera2 è di impedire l’interlocuzione, il dialogo, il colloquio3. L’analista “non risponde” proprio perché rifiuta all’analizzante lo statuto di interlocutore per attribuirgli solo quello di parlante.
La seconda conseguenza della regola fondamentale è che l’analizzante, anche se non lo sa, non si rivolge all’analista, supporto di tutti i suoi fantasmi edipici, ma nemmeno alla persona dell’analista, quel tale che ha un nome proprio, una propria vita e proprie opinioni personali, come tutti. L’abolizione del senso e della finalità del discorso, conseguenza della regola fondamentale dell’associazione libera, sopprime l’interlocutore per sostituirgli un essere ibrido e indefinibile, un “essere-di-transfert” che costituisce la peculiarità del transfert psicanalitico.
Tutta la virtù dell’analista nel transfert consiste nel sapersi mantenere sullo sfondo, nell’indeterminatezza, senza che la sua figura venga in primo piano, distruggendo l’indefinibile essere-di-transfert. Proprio qui entra in gioco il terzo. In che modo?
Freud ci dice che quando l’analizzante arresta le associazioni libere, possiamo essere sicuri che il terzo si è introdotto, intrufolato nei suoi pensieri. Le associazioni cessano di essere libere e vengono convogliate verso il terzo. Sappiamo che per trarsi d’impaccio Freud stigmatizza: Sta forse pensando a qualcosa che riguarda la mia persona? Ma ormai la frittata è fatta, il terzo è servito. La sua apparizione è dunque consustanziale all’intervento della resistenza di transfert, e al “lockdown” dell’inconscio.
Chi è questo terzo? Freud risponde: è l’analista stesso, che con un intervento malaccorto (una parola di troppo, un commento superfluo, un’approvazione o una disapprovazione, un consiglio, un suggerimento, un’interpretazione artificiosa, uno scambio telefonico che lo strappa rudemente dallo sfondo) si è reso presente all’analizzante. In altri termini, l’analista si è reso individuabile, si è personificato: come medico, terapeuta, maestro, educatore, teorico, clinico, saggio, come uno che ha le proprie opinioni, o semplicemente che ha una propria vita4.
Questo strano essere – “l’essere-di-transfert” – deve rimanere in perenne gestazione, in eterna giacenza, en souffrance, come si dice in francese: al contempo in giacenza (come una lettera non recapitata) e in sofferenza. Insomma, è fatto della stessa pasta dell’inconscio, che è dell’ordine del non-nato. Tutto ciò, detto tra parentesi, ha molto a che fare con i Lilia di Jean Carbonnier: come si può pretendere di regolamentare giuridicamente, al pari dei gigli, qualcosa di così effimero come l’essere-di-transfert? Viceversa, quando l’analista si rende individuabile, consistente, introduce nell’analisi il terzo, o meglio: si introduce nella seduta come terzo, a scapito dell’essere-di-transfert. Ecco degli esempi.
Freud sostiene che qualunque motivo impedisca all’analizzante di recarsi in seduta è da considerare una resistenza. Questa affermazione perde tutta la sua assurdità se la consideriamo per quello che è: un principio metodologico che per definizione non tiene in alcun conto la realtà. Tale principio afferma che le esigenze della realtà, anche le più giustificate e inoppugnabili, costituiscono il terzo che la situazione analitica non tollera. A queste esigenze il “metodo psicanalitico freudiano” non si piega. Si chiarisce così come il metodo e l’etica della psicanalisi siano la stessa cosa, senza bisogno che l’una si aggiunga all’altro (in tal caso avremmo ciò che Jean Allouch chiama “l’etificazione della psicanalisi”5). L’analista che applica il metodo psicanalitico freudiano si trova già, che lo voglia o no, che lo sappia o no, in una posizione etica, cioè di rinuncia. Abbiamo già accennato ad alcune di queste rinunce: rinuncia a dialogare (e a andare a letto) con l’analizzante, rinuncia a esprimere opinioni o giudizi personali, rinuncia a parlare in prima e in terza persona, rinuncia a compromettersi con le esigenze della realtà, rinuncia all’alleanza terapeutica, rinuncia a prendere socialmente e pubblicamente posizione, rinuncia a conferire un fine e una fine predeterminati all’analisi, rinuncia a integrarsi all’ordine sociale (a fare lega con la “maggioranza compatta”, come dice Freud, sostenendosi sul suo essere ebreo), rinuncia a compromettersi col discorso comune, rinuncia a tutte quelle compensazioni, a tutti quei godimenti che mettono a tacere il suo inconscio e impediscono che il suo desiderio si concentri sull’atto di interpretare.
Non bisogna dunque indulgere troppo alle richieste degli analizzanti – anche se più che legittime –, come quella di spostare gli appuntamenti o gli orari delle sedute, ecc. Tuttavia va fatta una precisazione essenziale: questo principio metodologico non è convocato in forza di “legge” – ecco di nuovo il terzo –, ma è sostenuto dall’analista nel proprio nome.
Prendiamo il mancato pagamento delle sedute. Chiamare in causa la regola analitica che impone sempre di pagarle è qualcosa di più che un errore, perché è a me che il soggetto deve rendere conto, e non a una regola (che allora prende il posto del terzo). «Lei sa che la regola impone di pagare anche le sedute a cui non è venuto» è ben diverso che dire: «È a me che devi pagarle». Analogamente, come abbiamo visto all’inizio, appellarsi a una regola che esclude il terzo è ben diverso dal non tollerarlo. È il “me”, e non la regola, a fare i conti con il terzo.
Chi è questo “me”? A chi si riferisce? A quell’essere-di-transfert che si mantiene nella bipartizione, nell’interstizio tra l’analista e la sua persona, senza mai determinarsi univocamente in un senso o nell’altro. Non si tratta né del “professionista” verso cui si è contratto un debito per una prestazione non pagata, né del piccolo tiranno che esige minacciosamente il denaro che gli spetta. Acconsentire a vivere in questo scarto non è qualcosa che si può imparare in una scuola di psicanalisi. Non tutti vi sono tagliati, e io sono convinto che un simile apprendistato affondi le sue radici nel sintomo, o meglio nella trasformazione del sintomo fondamentale, originario (mediante cui il soggetto oppone il suo primo “no” – Versagung – a rappresentare qualcosa per l’Altro), nel sintomo “psicanalista”6.
Essere “oggetto” di transfert, accettare di esistere nella realtà del transfert, comporta essere continuamente bersaglio di deliri, misconoscimenti, minacce, acting out, passaggi all’atto, angosce, violenze e ricatti di ogni genere. Tuttavia, non è possibile schermirsi e dire al proprio analizzante, come faceva Maurice Bouvet: io non sono il personaggio con cui le mi scambia: smetta di delirare e ritorni alla realtà: io non c’entro nulla con tutto quello di cui mi ritiene immaginariamente responsabile. Ma non è neanche possibile, come voleva Margareth Little, dare una “risposta totale” all’analizzante adottandolo, con la conseguenza di farlo regredire allo stato neonatale, e per l’analista di farsi sbranare pur di soddisfare tutte le sue richieste.
La posizione di Freud è qui decisiva: dite assolutamente di sì a tutte le richieste di transfert che vi fa l’analizzante, salvo il fatto di dirgli assolutamente di no. Con le sue parole: «Ci si guardi bene dallo sviare il transfert amoroso, dallo scacciarlo o dal far disamorare la paziente; ci si astenga altrettanto fermamente dal ricambiarla in qualunque modo.»7.
È questa la famosa “neutralità dell’analista”; non è la posizione di chi non si schiera, non si compromette per non rischiare mai nulla, pretendendosi al di sopra delle parti; bensì quella di chi si trova tra due fuochi, en souffrance.
Prestarsi a essere “oggetto” di transfert non significa altro che vedersi negato lo statuto di soggetto, statuto che l’analista può riconquistare: non convocando un terzo, ma solo con l’interpretazione. Ma se è così, la vera posta in gioco dell’interpretazione è liberarsi dall’essere tenuto in ostaggio del transfert. A mio avviso, questo è il senso ultimo dell’interpretazione: l’essere-di-transfert prende la parola e fa cadere, non fosse che per un momento, il transfert che lo tiene in ostaggio. Da qui il radicale sentimento di estraneità – e al contempo di prossimità – che può suscitare l’interpretazione, sia per l’analizzante che per l’analista. Questa esperienza si rinnova infinite volte in un’analisi, fino a quando l’analizzante comincia a rivolgersi, a parlare direttamente all’essere-di-transfert, senza più giri di parole, senza più parlare a un fantasma. Ma allora, giustamente, non c’è più alcun bisogno di interpretare.
Note
1 S. Freud, Die Frage der Laienanalyse (1926), trad. it. La questione dell’analisi laica. Conversazioni con un imparziale, traduzione e cura di Antonello Sciacchitano e Davide Radice, Mimesis, Milano, Udine 2012, p. 25.
2 L’etimologia attribuisce l’origine della locuzione alla bambarria che nel gioco del biliardo indica un tiro sbagliato ma casualmente vincente.
3 Nonostante tanti libri vi siano dedicati, perfino nel titolo, il “colloquio psicanalitico” è un delirio: se c’è il colloquio non può esserci l’associazione libera (e viceversa), e dunque non si può trattare di un’analisi. D’altronde, il colloquio è sempre comandato da un padrone. Ne ho scritto in Un delirio (collettivo?): Il “colloquio psicoanalitico”.
4 Il transfert si regge sul fatto che l’analista non abbia una propria vita personale, che addirittura non esca mai dal luogo dell’analisi, come se facesse parte fissa dell’arredamento. Con più l’analista diviene un personaggio pubblico, che si mostra, che prende posizione, che “dice la sua”, con più il transfert si rafforza nel suo aspetto di resistenza (docile o ostile).
5 J. Allouch, L’éthification de la psychanalyse: calamité, Epel, Paris 1997.
6 Io devo questo sintomo a mia madre, che nel mio caso chiamo il sintomo dell’innominato. Mia madre non è mai riuscita a chiamarmi col mio nome: dopo averne pronunciati quattro o cinque si arrendeva e lo chiedeva a me, che non potevo naturalmente risponderle (già da allora non poteva esserci interlocutore). È stato un apprendistato crudele, ma che mi ha permesso di collocarmi nel taglio tra S e S1, che è la posizione in cui si mantiene l’analista nel transfert.
7 S. Freud, Bemerkungen über die Übertragungsliebe (1915), trad. it. Osservazioni sull’amore di traslazione, in Opere di Sigmund Freud, 12 voll., vol. VII, Boringhieri, Torino 1975, p. 369 (traduzione modificata).
Bibliografia
J. Allouch, L’éthification de la psychanalyse: calamité, Epel, Paris 1997.
S. Freud, Bemerkungen über die Übertragungsliebe (1915), trad. it. Osservazioni sull’amore di traslazione, in Opere di Sigmund Freud, 12 voll., vol. VII, Boringhieri, Torino 1975, pp. 362-374.
Id., Die Frage der Laienanalyse (1926), trad. it. La questione dell’analisi laica. Conversazioni con un imparziale, traduzione e cura di Antonello Sciacchitano e Davide Radice, Mimesis, Milano-Udine 2012.
M. Manghi, Un delirio (collettivo?): Il “colloquio psicoanalitico”.
Interessante. Freud, nella situazione in cui era, non poteva fare di più. Barcamenarsi tra istituzioni totali (ancora perlopiù presenti ancora adesso) giocando tra il troppo, tutte le infrazioni che si concedeva e il troppo poco, la fluttuazione, le analisi brevi, brevissime, sbrigative quasi e clamorosamente sbagliate eppure, in qualche modo, efficaci.