Associazioni liberamente fluttuanti

Né comunità né associazione

Da uno degli ultimi libri del filosofo John Rawls (1921-2002), Liberalismo politico,1 riprendo il titolo del cap. I.7, che suona proprio così: “né comunità né associazione”. Il riferimento a questo autore mi sembra “naturale” in psicanalisi, dato il suo approccio epistemico al contratto sociale attraverso il “velo di ignoranza”. Secondo questo autore, infatti, il contratto sociale si può immaginare che non avvenga sul piano ontologico della lotta di tutti contro tutti, ma sul piano dell’ignoranza di tutti nei confronti delle potenzialità sociali di tutti. In questa posizione, che Rawls definisce “posizione originaria”, l’azione politica diventa un vero e proprio “saperci fare con l’ignoranza”.2 Insomma, siamo liberi e potenzialmente democratici, perché siamo ignoranti. Questa tesi vale in modo particolare per lo psicanalista che opera sul piano epistemico del sapere che non si sa di sapere; per questa peculiarità l’analista occupa una posizione originariamente collettiva molto simile alla “posizione originaria”, come la definiva Rawls, intendendo socialmente indifferenziata; detto in termini freudiani, gli psicanalisti sono originariamente predisposti alle “associazioni libere” o, forse detto ancora meglio, alle “associazioni liberamente fluttuanti”, che ovviamente non sono associazioni in senso giuridico.

Fatta questa breve premessa, scendo dalle considerazioni filosofiche generali di Rawls al “piccolo mondo antico” della psicanalisi e affermo che il modo di associarsi degli analisti non può essere né quello dell’associazione né quello della comunità (o della scuola). Dimostro che le ragioni sono inerenti allo statuto della psicanalisi in quanto moderna pratica scientifica.

John Rawls
John Rawls

Gli psicanalisti non possono formare un’associazione. Poiché la psicanalisi è un prodotto culturale dell’epoca moderna, in essa il sapere precede logicamente l’essere, come il cogito precede il sum. Perciò il modo di associarsi degli psicanalisti non può far precedere l’essere al sapere; in altri termini, il legame sociale tra psicanalisti non può essere declinato nei modi dell’associazione, dove il singolo entra grazie a un’identità ontologica predefinita, tipicamente l’identità professionale, nel caso previsto dalla legge italiana, quella dello psicoterapeuta. In particolare, esercitando un sapere che non sa di sapere – il termine freudiano è inconscio – l’analista “manca a essere”, come dice Jacques Lacan, cioè manca delle necessarie credenziali ontologiche da esibire davanti al notaio al momento dell’atto di fondazione dell’associazione; la ragione è puramente logica: non essendo diventato sapere, il non sapere non può ancora “partorire” l’essere dell’ente, che resta senza identità. Giustamente Lacan parla di statuto preontologico dell’inconscio.3 L’estensione dello statuto di precarietà ontologica ai praticanti dell’inconscio, analisti e analizzanti, mi sembra una ragionevole generalizzazione.

Gli psicanalisti non possono formare una comunità. Poiché la psicanalisi è una variante di discorso scientifico, la colleganza tra analisti e analizzanti non può declinarsi nei modi della comunità, perché la comunità, tipicamente la comunità scolastica, è retta da una dottrina, in genere promulgata da un maestro fondatore e blindata nell’ortodossia dai suoi immediati successori. Le dottrine sono costrutti teorici radicalmente non scientifici, perché non tollerano di essere sottoposti a confutazione, ma esigono solo la conferma (poco importa se ideologica). La confutazione di una dottrina porta all’eresia, quindi alla scomunica e all’estromissione dalla comunità. Il meccanismo dell’istituzione dottrinaria, che porta a istituzioni sociali chiuse, dove la dottrina si incarna e muore, si è ripetuto troppe volte nella storia del movimento psicanalitico, per lasciare dubbi sulla costituzione religiosa delle comunità psicanalitiche, che sono religiose senza dio. Osservo en passant e senza voler suscitare polemiche che la formula della religione senza dio è tipicamente ebraica. Dopo aver inventato il monoteismo, l’ebreo ha inventato l’ateismo, aiutato certamente dalla propria appartenenza a una comunità, elevata essa stessa alla dignità di dio. Avendo una comunità forte, quella di popolo eletto, l’ebreo non ha più bisogno di dio.

Va tuttavia precisato che, in un certo senso, la comunità potrebbe vantare caratteri di modernità; infatti, realizza sì la precedenza del sapere sull’essere, come esige la modernità, ma la realizza in forma antica, cioè ontologica; allora la comunità diventa un’associazione identitaria, tipicamente una scuola di formazione. Nella comunità tutto il sapere è dato prima, secondo modalità incontrovertibili, essendo rivelato dal maestro, che incarna dio in terra; essendo sacro, il sapere va poi trasmesso di generazione in generazione senza alcuna modificazione, in modo che il “popolo” possa identificarsi ad esso senza difficoltà di padre in figlio. Da qui i rituali della formazione, che è conformazione, e i conseguenti riti di passaggio o di abilitazione dei catecumeni, che formalmente differiscono poco da scuola a scuola. Da qui l’esercizio conformistico del sapere comune nei periodici riti di appartenenza: congressi, gruppi di studio, letteratura scientifica, dove si rumina sempre lo stesso “libro”, confermandone all’infinito il sapere e rinforzando la conseguente identità. Funziona il modello biblico, per esempio, nei monumentali Ecrits di Jacques Lacan. Tutto sommato, la comunità scolastica è un’associazione epistemica figé, poco adatta alla convivenza di analisti, che dovrebbero essere aperti a quella sorgente di sapere sempre nuovo che è la Urverdrängung, su cui si fonda l’inconscio freudiano.

O esoterici o essoterici?

Dopo il né… né, verrà il momento dell’alternativa positiva o… o…? Esiste qualcosa al di là del né… né? Non sarà forse vuoto l’insieme complementare all’insieme delle comunità o delle associazioni? La risposta di Rawls è scontata: esiste la società democratica. Allora, nel nostro caso, si tratta di vedere se esiste la possibilità di una società democratica tra psicanalisti né confessionale né professionale. Chi mi conosce sa già che la mia congettura è positiva: esiste la possibilità di società democratica tra psicanalisti che adottino una concezione scientifica della psicanalisi.4 Qui non voglio trattare il problema generale dei rapporti tra democrazia e scienza, che esistono, ma non sono facili né teorizzare né da realizzare in pratica. Tornando al caso particolare della psicanalisi riprendo il filo di John Rawls e lo passo a Ludwik Fleck (1896-1961), microbiologo e sociologo della scienza.

Prima dell’alternativa o… o…, sulla quale lascerò la parola a Ludwik Fleck, devo fare una premessa terminologica, cioè devo introdurre due termini che devo allo stesso Fleck. Potrebbero essere termini freudiani. Infatti, fanno giocare l’identità di psicologia tra due soggetti: il soggetto individuale e il soggetto collettivo. Ma potrebbero anche essere termini lacaniani; infatti, alla fine del suo famoso sofisma sul tempo logico Lacan conclude con la tesi: le collectif n’est rien, que le sujet de l’individuel, “il collettivo non è nient’altro che il soggetto dell’individuale”.5 Intendo proporre alla riflessione degli psicanalisti il termine Denkollectiv o “collettivo di pensiero”, relativo al soggetto collettivo, a sua volta accoppiato a Denkstil o “stile di pensiero”, relativo al soggetto individuale. La portata di questi termini potrebbe essere dirompente per il movimento psicanalitico che, se è stato un movimento, non si è distinto come movimento di pensiero, pur essendo stato generato da un pensiero geniale, come quello di Freud sull’inconscio. Il legame sociale tra psicanalisti tornerà a essere psicanalitico se diventerà un legame di pensiero, essenzialmente diverso da quello oggi vigente, che è un legame lobbistico, fondato su dottrine e su tecniche che si annusano tra di loro come teorie e pratiche reciprocamente eretiche.

A monte c’è un riferimento cartesiano da rivitalizzare, in nome della già affermata precedenza del sapere sull’essere. Lo formulo con un aforisma che devo a un mio analizzante e che proposi una decina di anni fa al Congresso di Milano del 2 febbraio 2002 sul “Legame sociale tra psicanalisti”: In buona sostanza, non ci può essere legame sociale tra psicanalisti, se gli psicanalisti non pensano. E non pensano se rimangono catafratti nelle corazze dottrinarie delle scuole di appartenenza. In matematica l’appartenenza di un elemento a un insieme è scritta con il simbolo di Peano, che è l’iniziale della terza persona singolare del presente indicativo del verbo “essere”; l’appartenenza realizza l’antica precedenza dell’essere sul sapere. (Aristotele diceva upárchein).

L’alternativa intravista da Fleck – alternativa condizionata dall’esistenza di un pensiero psicanalitico – è allora: o collettivo di pensiero esoterico o collettivo di pensiero essoterico? Sulla complessità di questa problematica, sia interna ai collettivi sia esterna, tra i collettivi e la società che li ospita, lascio la parola al saggio magistrale di Fleck, Il problema della teoria della conoscenza.6 Il problema è se il collettivo psicanalitico debba essere organizzato in modo esoterico, con un sapere elaborato dai maghi e distribuito come pozione curativa segreta ai pazienti, che chiedono di essere curati, o se deve essere organizzato in modo aperto a tutti coloro che vogliono collaborare all’edificazione del sapere soggettivo sul desiderio. Di fatto e ambiguamente la psicanalisi ha imboccato entrambe le strade: è diventata esoterica come psicoterapia e essoterica come psicopatologia della vita quotidiana. Oggi tutti sanno cos’è un lapsus freudiano; si frequenta la psicanalisi come si va a cinema; del resto, come si sa, psicanalisi e cinema (muto!) sono fratelli gemelli; ma i segreti della cura restano gelosamente custoditi negli armadi delle scuole psicanalitiche, insieme a qualche scheletro, di cui sono ghiotti i libri neri della psicanalisi.

Non approfondisco la questione dei collettivi eso/essoterici, ma mi limito a sviluppare la metafora delle “associazioni psicanalitiche liberamente fluttuanti” – che contamina le due regole fondamentali dell’analisi, quella relativa all’analista e quella relativa all’analizzante – con due considerazioni marginali, in un certo senso una iniziale e l’altra finale, che potrebbero aiutare a tradurre la problematica generale della colleganza in quella specifica del caso psicanalitico.

La considerazione iniziale è la stessa che Fleck formula in apertura del suo saggio a proposito della questione dell’empirismo. L’empirismo è il pilastro dell’epistemologia freudiana. La formulazione più chiara di questa epistemologia è nell’incipit della Lezione XXX di Freud sull’occultismo. Si formula così: non c’è scienza senza fatti positivamente accertati. Ebbene, mi sento tranquillo nell’affermare che questa epistemologia non è scientifica, neppure nella versione del più becero positivismo. Questa epistemologia è medica. La scienza non si basa su fatti positivamente accertati ma su principi metaempirici, necessari a valutare l’empiria, ma non messi in discussione dall’empiria; sono il principio di inerzia (o più in generale i principi di relatività ristretta e generale) in fisica e il principio della discendenza con modificazioni o principio della variabilità biologica nella biologia darwiniana. La medicina, invece, si basa su fatti positivamente accertati. Chiaro, non può fare diversamente, dovendo applicare senza incertezze le tecniche terapeutiche affermate: usare certi farmaci, messi in commercio dall’industria farmaceutica, applicare certe procedure, stabilite nelle linee direttive del ministero. Ma non esiste nessun ministero per la psicanalisi. L’epistemologia giusta per la psicanalisi resta ancora da formulare. Tuttavia, qualcosa sappiamo. Sappiamo in teoria che sarà metaempirica, se vorrà riconoscere il fatto empirico della sua stessa esistenza. Sappiamo in pratica che riusciremo a formularla se abbandoneremo a se stesso l’empirismo medico, che inquina la psicanalisi sin dai tempi di Freud.

L’empirismo freudiano si esprime in un tipico rapporto alla verità e con una precisa modalità retorica. La verità “vera” si narra; si narra narrando i fatti. Dall’empirismo deriva l’assetto narrativo da Freud conferito sia alla teoria sia alla pratica psicanalitiche – assetto che privilegia la diacronia rispetto alla sincronia; l’operazione retorica narrativa dimostra in seconda battuta tutta la distanza della sistemazione freudiana della psicanalisi dal discorso scientifico moderno, dove il tempo non è cronologico ma epistemico, come per altro già dimostrato da Lacan nel sofisma dei tre prigionieri.

È narrativa la teoria freudiana; è narrativa la sua metapsicologia delle pulsioni, che obbliga il soggetto analizzante a risalire nel tempo alla ricerca delle cause degli effetti soggettivi: i sintomi, i sogni, i lapsus, i transfert, sulla scorta della mitologia freudiana. Le pulsioni non sono istinti biologici. Freud non fu mai darwiniano, neppure quando diceva di derivare da Darwin il mito dell’orda. Freud fu aristotelico; le sue pulsioni sono cause aristoteliche, che a sua volta mutuava da Ippocrate. Precisamente, sono cause efficienti le prime pulsioni che Freud mette in campo: le pulsioni sessuali, che dovrebbero produrre la soddisfazione sessuale. Come funzionano? Tautologicamente. Agisce in esse il principio molieresco: “Perché fa dormire l’oppio? Perché ha la virtus dormitiva”. Successivamente, dopo il 1920, nel teatrino freudiano va in scena la causa finale, già condannata come antiscientifica per eccellenza da Cartesio. Freud la battezza “pulsione di morte” (Todestrieb) in nome di un radicale antibiologismo, che può sembrare paradossale in un medico, se non si tiene presente che la medicina non è mai stata una scienza ma una pratica dell’adattamento all’ambiente. Freud convoca la morte per spiegare la ripetizione, senza rendersi conto che la ripetizione è l’effetto ontologico della finitezza. Qualunque meccanismo finito, dal più semplice giocattolo del bambino – la bobina legata a un filo di suo nipotino – ai meccanismi sociali più complessi, è destinato a incorrere nella ripetizione … spontaneamente. Non occorre invocare cause ad hoc, che Willard Van Orman Quine chiamava spiritosamente adhoccherie e Rudyard Kipling Just so stories. Basta che il meccanismo entri in uno stato già visitato, perché la sequenza degli stati successivi si ripeta identicamente come nel passato.

Infine, è narrativa la pratica clinica freudiana, ricalcata sull’anamnesi medica. Lo stesso Freud si meravigliava di scrivere storie cliniche che si leggono come novelle, per così dire carenti del marchio serio della scientificità.7 Nei casi clinici freudiani si rivela a pieno l’assetto medicale dato da Freud alla propria pratica, al punto che per apprendere la psicanalisi nella cosiddetta analisi didattica (Lehranalyse), l’analista in formazione deve per principio fingersi malato – anche se in realtà lo è di fatto! – per sottoporsi all’analisi. Del resto la finzione è forse persino necessaria, non essendo state trovate finora “determinazioni” diverse dalla patologia per intraprendere un’analisi.

Ma non ci si inganni. I casi clinici psicanalitici non sono finalizzati a dimostrare l’efficacia terapeutica della cura analitica. L’eventuale guarigione viene presentata nel caso a un solo scopo: confermare la validità della dottrina che è stata applicata alla clinica. Qui si evidenzia una volta di più la configurazione non scientifica della dottrina, che richiede conferme, mentre le teorie scientifiche vivono di confutazioni. Ai dottrinari ricordo il teorema logico noto come modus tollendo tollens. Se la teoria prevede che A implichi B e in pratica si verifica non B, allora nella teoria si può negare A (falsificazione). Molto diverso dal procedimento dottrinario secondo cui, se la teoria prevede che A implichi B e in pratica si verifica B, allora nella teoria si può affermare A (conferma). Il primo è un teorema valido; il secondo una pratica ideologica, tipica dell’empirismo a oltranza.

La considerazione finale mi porta a interrogarmi sulla possibilità che esista una terza alternativa rispetto ai collettivi eso ed essoterici. In base alla mia esperienza che, giuste le considerazioni precedenti, mi guardo bene dal sopravvalutare in senso empirico, esiste una posizione etico-politica intermedia, che miscela e sintetizza i due stili di pensiero eso ed essoterico: è la modalità free lance, che pure rispetta l’assioma negativo “né associazione né comunità”. È la modalità che vado sperimentando da quindici anni, da quando sono uscito dall’ultima associazione psicanalitica da me fondata. Nelle mie mani ha dato risultati positivi, come dimostrano le mie pubblicazioni. Non credo, tuttavia, che sia una modalità applicabile a tutti in modo indiscriminato. In me produce pensiero; in altri potrebbe inibire il pensiero. Nel movimento psicanalitico mi sento solo ma non isolato, come diceva Lacan; altri potrebbero sentirsi isolati anche quando fossero in compagnia. Non resta che scegliere di volta in volta, caso per caso.

Il free lance è una presenza necessaria in qualunque movimento di pensiero, anche se non tutti i pensanti possono essere free lance. Il free lance testimonia che quel pensiero non è una dottrina. Quindi, qualcuno nel campo freudiano deve “sacrificarsi” a fare da free lance. Qualcuno deve elaborare un pensiero che all’origine è essoterico, addirittura “idiota”, nel senso greco che è specificamente suo, ma che diventa esoterico quando è messo a disposizione della falsificazione pubblica. Qui sta la vera difficoltà. Non è difficile inventare un nuovo sapere; difficile è esporlo pubblicamente e metterlo democraticamente alla prova di tutti. Infatti, raramente il pubblico si prende la briga di falsificare la dottrina ricevuta. È una questione di inerzia sociale. In generale, il pubblico è conservatore; in particolare, il pubblico degli psicanalisti è doppiamente conservatore; bisogna capirli questi poveri psicanalisti; hanno speso tanti bei soldini per comprare la propria formazione e, allora, uno si chiede: “Chi me lo fa fare di impegnarmi con teorie alternative, solo per il gusto di falsificarle? Io ho la mia dottrina, che per me è quella giusta e mi basta. Delle altre psicanalisi, in particolare della psicanalisi secondo Sciacchitano o secondo qualcun altro, non mi può fregare di meno.”

Resta una sola possibilità: i giovani; i giovani, prima di sottoporsi al processo di invecchiamento precoce della formazione di scuola, possono affrontare teorie nuove, farle proprie provvisoriamente e rigettarle falsificandole per passare a teorie più convincenti, su cui operare come sulle precedenti, cioè in modo scientifico. Allora concludo veramente, simmetricamente all’inizio: psicanalisti ringiovanitevi!

 

Note

1 J. Rawls, Liberalismo politico (1993), trad. G. Rigamomti, Edizioni di Comunità, Milano 1999, p. 50.
2 Rawls torna a più riprese sulla precarietà di questa “posizione originaria”, che è ontologicamente instabile, praticamente irrealizzabile. Basta che qualcuno abbandoni la posizione da ignorante, basta che passi a una qualche supposizione sul sapere dell’altro, perché si scatenino paranoie reciproche e violenze non solo ideali, tornando al cosiddetto “stato di natura” della guerra di tutti contro tutti. La “posizione originaria” non è data automaticamente, ma è una conquista collettiva della Kulturarbeit (il lavoro della civiltà, secondo Freud), che precede ogni civiltà.
3 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamenteaux de la psychanalyse (1964), Seuil, Paris 1973, p. 31. Poco oltre precisa che lo statuto dell’inconscio non è ontico ma etico (ivi, p. 35).
4 Su questo punto, benché critico, a volte aspramente critico, nei confronti del lacanismo, sono ferreamente lacaniano, a volte contro lo stesso Lacan. Mais l’analyse n’est pas une religion. Elle procède du même statut que la science. “Ma l’analisi non è una religione; procede dallo stesso statuto della scienza” (J. Lacan, Le Séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamenteaux de la psychanalyse (1964), Seuil, Paris 1973, p. 239).
5 J. Lacan, “Le temps logique et l’assertion de certitude anticipée” (1945), in Id., Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 213.
6 Cfr. L. Fleck, “Das Problem einer Theorie des Erkennens”, in Id. Erfahrung und Tatsache, a cura di Lothar Schäfer e Thomas Schnelle, Suhrkamp, Frankfurt a.M, 1983, pp. 84-126, trad. C. Catenacci, “Il problema dell’epistemologia” in Id., La scienza come collettivo di pensiero. Saggi sul fatto scientifico, Edizioni Melquiades, Milano 2009, pp. 71-109.
7 S. Freud, “Studi sull’isteria” (1895), in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. I, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, p. 227.

Di Antonello Sciacchitano

Nato a San Pellegrino il 24 giugno 1940. Medico e psichiatra, lavora a Milano come psicanalista di formazione lacaniana; riceve domande d'analisi in via Passo di Fargorida, 6, tel. 02.5691223: E' redattore della rivista di cultura e filosofia "aut aut", fondata da Enzo Paci nel 1951.

3 commenti

  1. La modalità epistemica free lance che tu proponi è interessante, anche perché potrebbe essere vista come un’applicazione del sofisma lacaniano dei tre prigionieri, ponendosi questo come modello che va oltre ai consueti collettivi dell’eso/essoterismo ontologico, cioè un modello collettivamente speciale, il loro “terzo escluso”.
    In altre parole, la modalità del citato sofisma, implicando nella temporalità logica soggettiva la propria ignoranza e l’altrui sapere – e ritorno -, può essere un esempio della possibilità di un lavoro fecondo e libero da svolgersi attraverso il sapere/non-sapere, nella sua capacità di fungere da azione/reazione di puro sapere senza conoscenza, per una collettività che non si fonda né su di un interno esoterico, né su di un esterno essoterico.
    Questa diversa modalità, invece, offre la possibilità di agire il pensiero ed esserne agiti in ambito collettivo tramite un non-sapere/sapere misurato direttamente sul vivo dell’esistenza individuale e collettiva, un ritmo epistemico che procede come un orlo di cucito indeterministico e che si sostiene sull’avvicendamento temporale di sapere/non-sapere, anziché sulla staticità accumulatoria e senza tempo della conoscenza acquisita.
    La collettività “terza” di riferimento del free lance è perciò analoga a un arcipelago sociale fra i cui soggetti scorre il pensiero.

  2. Certo, “terzo incluso”. “Escluso”, se guardato dalle posizioni ontologiche che non vedono una terza possibilità.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.