Inibizione del pensiero e omogeneizzazione del legame sociale
In generale, se esistono delle miserie, da qualche parte devono pur esistere delle ricchezze, come le luci non vanno senza le ombre. Tenterò allora di tratteggiare le luci e le ombre dell’“effetto scuola”, soffermandomi prevalentemente sulle seconde. Devo però premettere un’avvertenza, che mi sembra necessaria, affacciandomi io su un collettivo di pensiero foucaultiano. Gran parte della mia argomentazione, infatti, dall’inizio a buona metà del tragitto, si svolgerà nel contesto del pensiero darwiniano. Ciò mi obbliga in via preliminare a cautelarmi o, detto volgarmente – e chiedo venia – a “pararmi il culo”.
Come si sa, non corse buon sangue tra Foucault e Darwin; in genere, non corre buon sangue tra scuola di pensiero francese e inglese. Senza rivangare la stereotipata contrapposizione tra “analitici e continentali”, segnalo solo l’antipatia reciproca tra le due forme di pensiero che, ridotta all’osso, si riduce alla confusione tra evoluzione e storia. Per molti pensatori francesi, Darwin fu un evoluzionista. Gli mancava la “comprensione” della storia: dell’archeologia, direbbe Foucault. Questo errore va accuratamente evitato, perché è una fallacia che inibisce ulteriori sviluppi di pensiero, per esempio la correzione di certe idiosincrasie che inquinano lo stesso paradigma darwiniano. (I “cattivi” maestri vanno corretti, per non dire traditi, dai “buoni” allievi, direbbe Nietzsche). Darwin non è Spencer. Spencer fu evoluzionista e teleologico, Darwin no. Nel “lungo ragionamento” darwiniano c’è poco di evoluzionistico, tanto meno di finalistico. C’è, piuttosto, un gioco di contingenze – come le chiama Telmo Pievani – che si combinano in modo imprevedibile ma documentabile negli eventi di quella che giustamente si chiama “storia naturale”.
Questa è la mia premessa maggiore, che finisce qui. C’è poi una premessa minore, che è esclusivamente farina del mio sacco. Di Darwin faccio mia e sviluppo a modo mio un’intuizione particolare che Darwin formula in Descent of man del 1871 (da non tradurre, tra parentesi, L’origine dell’uomo, ma Discendenza dell’uomo, nel senso di storia delle antecedenze umane). Darwin, che aveva già messo a punto le nozioni di discendenza con (piccole) variazioni nell’Origine delle specie del 1859 e di variabilità biologica delle popolazioni di esseri viventi nelle Variazioni delle piante e degli animali allo stato domestico del 1868, in Descent of man, per spiegare l’emergenza dell’uomo ricorre a una doppia selezione: dell’individuo e dei gruppi di individui. L’assunto darwiniano di base è proprio ciò cui i pensatori francesi – da Merleau-Ponty a Derrida, via Foucault e Lacan – resistono ad ammettere: la continuità tra natura e cultura, tra genetica e sapere linguisticamente organizzato. La doppia selezione, spesso con interazioni reciprocamente negative, è ciò che consente lo sviluppo, a volte problematico, per non dire contraddittorio, delle due componenti: quella naturale e quella culturale.
Così si conclude la mia premessa minore; entro quindi in argomento.
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La scuola trasmette la cultura, quindi stabilizza la società.
In termini darwiniani, la scuola è stata premiata dalla selezione di gruppo perché consente la conservazione e la trasmissione alle generazioni successive delle acquisizioni culturali, tecniche e scientifiche, che spesso sono state faticosamente strappate alla natura e, a posteriori, hanno promosso e consolidato la civiltà. Civiltà senza scuola, se mai sono esistite, sono state spazzate via sul nascere, essendo perdenti nel confronto tra culture diverse. Non basta saper scheggiare un sasso per farne un’ascia; bisogna sapere trasmettere la tecnologia ai figli, altrimenti è inutile saperlo fare – inutile, intendo, dal punto di vista della sopravvivenza di Homo habilis e della sua abilità culturale, emersa qualche milione di anni fa.
Da quel dì l’operazione scolastica non è mai stata gratuita, ma ha sempre avuto un prezzo. È il prezzo che ogni civiltà deve pagare alla conservazione, alla “destra”, per automantenersi. Ho detto prima delle interazioni negative – avrei dovuto usare il termine psicanalitico “conflittuali” – tra le due selezioni, l’individuale e la gruppale. Ebbene, proprio nel caso della scuola la selezione di gruppo overrules, prende il sopravvento, sulla selezione individuale. Il prezzo che la selezione gruppale della struttura scolastica impone all’individuo è la perdita – più o meno completa – della propria originalità. Come il lupo che si sacrifica per il bene del branco perde il proprio patrimonio genetico a vantaggio della salvaguardia patrimonio genetico comune, così le api operaie rinunciano alla trasmissione delle proprie caratteristiche genetiche per favorire la trasmissione delle caratteristiche dell’ape regina e… potrei continuare con molti altri esempi.
Si badi bene: la perdita dell’originalità “potenziale” non è un prezzo da poco. Non è solo il singolo a perdere, ma tutta la collettività. Il singolo individuo, che perde la propria originalità per conformarsi al sapere consolidato, trasmesso dalla scuola, fa perdere a tutti potenzialità utili per la società stessa. Infatti, il singolo individuo che si conforma ai dettami scolastici, potrebbe – se si conformasse meno – inventare dispositivi ancora più utili di quelli che apprende a usare e che la società ancora non conosce. Ma tant’è: il prezzo è questo. I nuovi dispositivi possono attendere; prima o poi certamente qualcun altro introdurrà le innovazioni oggi perdute (censurate).
Sul breve periodo l’istituzione scolastica produce, oltre all’effetto positivo di conservare il deposito di sapere necessario alla sopravvivenza della società, due effetti chiaramente negativi, che vanno ben oltre le mancate innovazioni: l’inibizione a pensare e l’omogeneità dei legami sociali tra pensanti. L’inibizione a pensare è poco male: prima o poi il nuovo pensiero emerge sempre. C’è sempre un “matto” che la pensa diversamente dai “normali”, che non sono riusciti a internarlo, e addirittura riesce a fondare una nuova scuola di pensiero. A riprova che si tratta di vero pensiero, perché il vero pensiero non può restare individuale.
Più grave è l’omogeneità dei legami sociali. Qui gioca a tutto campo la variabilità darwiniana: nuove specie, come nuove società, possono emergere solo in un contesto di variabilità popolazionale. Nuove forme di convivenza civile – le cosiddette mutazioni antropologiche – possono avvenire e stabilirsi solo in condizioni di legami sociali variabili. Omogeneità significa morte, non solo in termodinamica; è morte anche civile, oltre che biologica. (Qui si aprirebbe un discorso, che non posso sviluppare, sulla decadenza delle civiltà come fenomeno parallelo all’estinzione delle specie, sempre in nome del postulato darwiniano della continuità natura-cultura.)
Di seguito illustro questa particolare miseria dell’effetto-scuola nel campo che per esperienza conosco meglio, praticandolo ormai da quarant’anni: il campo psicanalitico o campo freudiano, come amava dire il mio maestro, Jacques Lacan. Tale miseria è qui particolarmente evidente, avendo portato alla quasi totale estinzione dell’innovazione freudiana originale; si chiamava psicanalisi.
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La scuola fondata da Lacan nel 1964, dopo la sua definitiva scomunica da parte dell’IPA nel 1963 con il pretesto delle sedute brevi, e da lui dissolta nel 1980, si chiamava Ecole freudienne de Paris o EFP.
Era freudiana di nome e di fatto.
Non era freudiana solo di nome, per via dello slogan del “ritorno a Freud”, lanciato da Lacan nel 1953 e più polemico che sostanziale; era freudiana di fatto perché, come molte associazioni psicanalitiche (freudiane e non!), era organizzata sul modello freudiano dell’orda primitiva o Urhorde.
Come si sa, Freud propose la propria mitologia dell’orda primitiva, come modello arcaico di organizzazione sociale, nel IV capitolo di Totem e Tabu (1912) e nel X capitolo di Psicologia delle masse (1921). In quanto mitologia, ritraduce in termini collettivi il mito individuale dell’edipo. Freud si riferisce pretestuosamente a Darwin, per collocare la propria fantasia paleoantropologica all’ombra dell’autorità di Darwin. L’uomo primitivo avrebbe vissuto in piccole comunità, orde appunto, secondo Freud, dominate da uno stallone che teneva tutte le donne per sé, obbligando i fratelli all’omosessualità. Stanchi dell’oppressione, i fratelli avrebbero stretto un patto per uccidere il padre e vivere sotto la legge simbolica, che avrebbe preso il posto del padre reale.
Mitologia prescientifica a parte, Freud fraintende il significato delle small communities di cui parla Darwin in Descent of Man (cap. xx); le interpreta come “orde primitive” (Urhorde); parla addirittura di “orde primitive darwiniane” (Darwinsche Urhorde). Ma c’è una bella differenza tra orda e comunità: l’orda è omogenea, la comunità è variabile; l’orda prevede la soggezione di tutti all’uno; nell’orda tutti sono uguali sotto l’uno cui sono asserviti; volendo fare un paragone biologico, l’orda è come l’alveare dove tutte le api operaie sono a servizio dell’ape regina. La comunità umana, invece, nasce dalla variabilità; prevede la collaborazione tra diversi e la divisione del lavoro tra le diverse componenti. Una bella confusione quella di Freud, che sicuramente Darwin non avrebbe apprezzato. (Ancor meno avrebbe apprezzato il tentativo maldestro di Freud di sfruttare la sua autorità per avallare le proprie ideologie personali). Ma tant’è, Freud mancava della nozione di variabilità e non poteva cogliere la differenza tra orda e comunità.
Dopo Freud, Lacan e tanti altri con lui. L’EFP era l’orda dominata dal maestro Lacan. Sotto di lui gli allievi analisti erano tutti uguali; solo alcuni erano un po’ meno uguali degli altri nel ruolo di luogotenenti o presbiteri che controllavano l’ortodossia. L’ortodossia era emanata ex cathedra dal maestro nel suo venticinquennale seminario. L’allievo si metteva alla prova dell’ortodossia nel rito di passaggio denominato passe, dove rendeva conto a due passeur, letteralmente “traghettatori”, di come nella sua analisi si era autorizzato a collocarsi nel posto di analista per altri. A loro volta i passeur riferivano a jury d’accueil, che decretava se il passant era degno di essere accolto come AE (analyste d’ecole) nella scuola. Ne parlo per esperienza diretta, essendo stato il primo (e forse unico) italiano a sottoporsi a quel rito che – purtroppo o per fortuna – non si concluse con un verdetto. Infatti, nel frattempo… l’EFP si sciolse – per fortuna.
È questo il nome della miseria scolastica: il ritualismo. La scuola produce riti di conferma della dottrina, fissata dogmaticamente dal maestro. La scuola non è scientifica proprio perché, per poter trasmettere fedelmente i dogmi, deve necessariamente metterli al riparo da ogni possibilità di confutazione. Dal rito della formazione, che è una vera e propria conformazione, è a priori esclusa ogni forma di critica. Chi critica diventa ipso facto eretico. È sempre stato così nelle scuole freudiane, dai tempi dei primi grandi eretici: Adler e Jung. Quei grandi eretici, come lo stesso piccolo eretico Lacan, testimoniano che la psicanalisi, contro le intenzioni del suo inventore era già diventata ai tempi di Freud una religione: una religione con tanti preti – gli psicanalisti – ma senza Dio, o meglio e in modo più pertinente, con un dio inconscio. Della psicanalisi come scienza, auspicata da Freud sin dai tempi del Progetto per una psicologia (1895) non è rimasta traccia.
In questo senso le miriadi di scuole psicanalitiche, alcune riconosciute dallo Stato italiano come scuole di psicoterapia, tradiscono di fatto la loro funzione che è, di principio, la trasmissione di un sapere, dunque la conservazione della società di coloro che tale sapere praticano, per esempio nel caso della psicanalisi come cura delle nevrosi. Il caso della trasmissione della psicanalisi è paradossale e meglio di altri casi di trasmissione scolastica mette in evidenza l’impossibile che sta alla base di ogni tentativo di educare e governare il prossimo (cfr. S. Freud, L’analisi finita e infinita, 1937, cap. VII).
Infatti, la psicanalisi, se è freudiana, si basa sul sapere inconscio, che è un sapere che non si sa ancora di sapere. Come si trasmette allora la pratica di ciò che non si sa? Come si insegna a lavorare con l’ignoranza? La modalità del maestro, che sa già cosa trasmettere, è per definizione inadeguata, per non dire contraddittoria. Anche Lacan era consapevole di questa aporia, tant’è vero che nel Seminario XVII del 1969 stabiliva che tra discorso del maestro e discorso dell’analista c’è un rapporto di capovolgimento: sono l’uno l’inverso dell’altro. In teoria l’inversione è chiara, ma in pratica? Come se ne esce?
Non la faccio lunga e mi fermo qui. In pratica, un abbozzo di risposta ce l’avrei; è l’inizio di una pars construens, che viene dopo la lunga pars destruens delineata sopra e ne sviluppa in modo coerente le premesse. Ma parlarne qui e ora mi porterebbe fuori tema. Ho parlato delle miserie della scuola. Dovrei ora parlare delle ricchezze della non-scuola.
Un tema per la prossima occasione di incontro e di confronto.