La psicanalisi e la Weltanschauung

Una Weltanschauung (Lezione 35)
di Sigmund Freud

Signore e Signori,

nel nostro ultimo incontro ci siamo occupati delle piccole preoccupazioni della vita quotidiana, come far ordine nella nostra modesta dimora. Oggi vogliamo tentare un’impresa ardita e rischiare di rispondere a una questione che da altre parti ci viene ripetutamente posta: se la psicanalisi porti a una determinata Weltanschauung e a quale.

Weltanschauung è – temo – un termine specifico tedesco; tradurlo in altre lingue può causare difficoltà. Comunque io tenti di definirlo, di sicuro vi sembrerà goffo. Penso che la Weltanschauung sia una costruzione intellettuale che risolve tutti i problemi della nostra esistenza in modo unitario, partendo da un presupposto generale, al cui interno nessun problema resta aperto e tutto ciò che ci interessa si trova al suo posto. È assai comprensibile che possedere tale Weltanschauung rientri nelle aspirazioni ideali dell’uomo. Crederci fa sentire più sicuri nella vita, sapendo a cosa si deve aspirare e sapendo come sistemare i propri affetti e interessi in modo opportuno.

Se la caratteristica di una Weltanschauung è questa, per la psicanalisi è facile rispondere. In quanto scienza particolare, ramo della psicologia – la psicologia del profondo o dell’inconscio – la psicanalisi è del tutto inadatta a formulare una Weltanschauung, ma deve assumere quella della scienza. Però la concezione scientifica del mondo si distanzia già in modo significativo dalla nostra definizione. Ammette la spiegazione unitaria del mondo, ma solo come programma la cui realizzazione è spostata al futuro. Peraltro si contraddistingue per caratteristiche negative: la limitazione a quanto è attualmente riconoscibile e il netto rifiuto di certi elementi estranei a essa. Sostiene che non esiste fonte di conoscenza del mondo diversa dall’elaborazione intellettuale di osservazioni accuratamente accertate – si chiama ricerca; oltre a questa non c’è conoscenza per rivelazione, intuizione o divinazione. Negli ultimi secoli questa concezione fu apparentemente molto vicina al riconoscimento generale. Il nostro secolo trovò la presuntuosa obiezione che tale concezione del mondo fosse misera e sconfortante, non considerando le pretese dello spirito e i bisogni dell’anima dell’uomo.

Non c’è energia che basti a respingere tale obiezione! È del tutto infondata; infatti spirito e anima sono oggetti della ricerca scientifica esattamente come qualunque oggetto estraneo all’uomo. La psicanalisi ha qui uno speciale diritto a farsi portavoce di una visione scientifica del mondo, perché non si può rimproverarle di aver trascurato lo psichico nella sua immagine del mondo. Il suo contributo alla scienza consiste proprio nell’aver esteso la ricerca al campo psichico. Senza siffatta psicologia la scienza sarebbe comunque veramente incompleta. Includendo però nella scienza l’investigazione delle funzioni intellettuali ed emotive dell’uomo (e degli animali), si dimostra che nell’atteggiamento generale della scienza non cambia nulla; non si danno nuove fonti di sapere o nuovi metodi di ricerca. Se esistessero, l’intuizione e la divinazione lo sarebbero, ma si può tranquillamente farle rientrare nelle illusioni, nelle realizzazioni di moti di desiderio. Si riconosce facilmente che tali richieste nei confronti di una Weltanschauung hanno solo un fondamento affettivo. La scienza riconosce che la vita psichica dell’uomo produce simili esigenze, è pronta a dimostrarne le fonti, ma non ha la minima ragione per riconoscerle giustificate. Al contrario, si sente esortata a separare accuratamente dal sapere tutto ciò che è illusione, risultando da tale esigenza affettiva.

Ciò non significa accantonare con disprezzo questi desideri o sottovalutarne l’importanza per la vita umana. Si è pronti a stare dietro a quelle realizzazioni che essi hanno avuto nelle produzioni artistiche, nei sistemi religiosi e filosofici, ma non si può non vedere che sarebbe ingiustificato e al tempo stesso inopportuno permettere di trasferire queste pretese al campo della conoscenza. In questo modo si aprirebbe infatti la strada che porta al regno della psicosi individuale e di massa, si sottrarrebbero preziose energie alle aspirazioni che si rivolgono alla realtà per soddisfare in essa, per quanto possibile, desideri e bisogni.

Dal punto di vista scientifico a questo livello è inevitabile esercitare la critica e procedere con rifiuti e confutazioni. È inammissibile affermare che la scienza sia un campo dell’attività spirituale dell’uomo e che la religione e la filosofia siano altri campi almeno equivalenti, sul cui merito la scienza non abbia nulla da dire. Essi hanno la stessa pretesa di verità e ogni uomo è libero di scegliere da dove attingere i propri convincimenti e dove riporre la propria fede. Tale concezione è ritenuta particolarmente elevata, tollerante, comprensiva e scevra di gretti pregiudizi. Purtroppo è insostenibile, condividendo tutte le nocività di una concezione del mondo non scientifica, cui finisce per equivalere. Sta di fatto che la verità non può essere tollerante; che non ammette compromessi e limitazioni; che la ricerca tratta come propri tutti i campi dell’attività umana e deve diventare inesorabilmente critica se un altro potere pretende sequestrarne un pezzo per sé.

Dei tre poteri che possono contestare la scienza fino in fondo, il nemico serio è solo la religione. L’arte è quasi sempre innocua e benefica; non vuol esser altro che illusione. A parte poche persone che, come si dice, ne sono possedute, l’arte non si arrischia a fare incursioni nel regno della realtà. La filosofia non è antitetica alla scienza; si atteggia a scienza, operando in parte con gli stessi metodi, ma se ne allontana mantenendo ferma l’illusione di poter produrre un’immagine del mondo senza lacune e coerente, destinata a infrangersi a ogni nuovo progresso del nostro sapere. Sbaglia nel metodo sopravvalutando il valore conoscitivo delle nostre operazioni logiche e riconoscendo anche altre fonti di sapere, per esempio l’intuizione. Abbastanza spesso viene da pensare che non sia ingiustificata la canzonatura del poeta (Heinrich Heine):

Con le vestaglie e le cuffie da notte
Tura le falle all’universo tutto.[1]

Ma la filosofia non influisce immediatamente sulla maggior parte degli uomini; interessa un piccolo numero di quel sottile strato superiore di intellettuali; tutti gli altri non riescono ad afferrarla. Per contro, la religione è di una potenza mostruosa, avendo a disposizione le emozioni più forti dell’uomo. È noto che un tempo abbracciava tutta la spiritualità che ha un ruolo nella vita dell’uomo; occupava il posto della scienza, quando essa non esisteva ancora; ha creato una concezione del mondo di coerenza e compattezza incomparabili che, per quanto scossa, perdura tuttora.

Volendo render conto della grandiosità della religione, si tenga presente cosa riesce a offrire agli uomini. Chiarisce l’origine e la genesi del mondo; assicura protezione e felicità infinita nelle alterne vicende della vita; orienta il modo di pensare e di agire con prescrizioni sostenute da tutta la sua autorità. Realizza così tre funzioni. Con la prima soddisfa la sete umana di sapere; fa quel che la scienza tenta di fare con i propri mezzi, rivaleggiando con essa. Alla seconda deve la maggior parte della sua influenza. La scienza non può stare alla pari con la religione che placa l’angoscia di fronte ai pericoli e ai casi alterni della vita, assicura l’esito felice, consolando gli uomini nelle disgrazie. La scienza insegna come evitare certi pericoli, sa combattere con successo alcune malattie; sarebbe ingiusto contestare che sia un potente ausilio per l’uomo, ma in molte situazioni deve abbandonare l’uomo alla propria sofferenza e sa solo consigliargli di sottomettervisi. Nella terza funzione di dare prescrizioni, emanare divieti e limitazioni la religione si allontana in massimo grado dalla scienza, che si limita a ricercare e stabilire, benché dalle sue applicazioni derivino regole e consigli di comportamento. In certe circostanze coincidono con quelli religiosi, ma giustificati in modo diverso.

Il confluire di questi tre contenuti religiosi non è del tutto trasparente. Cos’ha a che fare la spiegazione dell’origine del mondo con l’intimazione di certi precetti etici? Alle garanzie di protezione e di felicità sono più intimamente connesse le pretese etiche, rappresentando il premio per l’adempimento di quei precetti; solo chi vi si sottomette può contare sui loro benefici, mentre castighi attendono chi disobbedisce. Del resto, nella scienza esiste qualcosa di simile. Chi ignora le sue applicazioni – si pensa nella scienza – si espone al danno.

Si comprende che nella religione siano curiosamente compresenti insegnamento, consolazione e richiesta solo sottoponendo tale compresenza ad un’analisi genetica,[2] la quale può prendere le mosse dal punto più sorprendente dell’insieme, cioè l’insegnamento sull’origine del mondo. Infatti, perché mai una cosmogonia dovrebbe essere la regolare componente di un sistema religioso? La dottrina è che il mondo fu creato da un essere simile all’uomo ma ingigantito in tutti i sensi: potenza, saggezza, forza delle passioni, insomma da un superuomo idealizzato. Che degli animali possano creare il mondo dimostra l’influenza del totemismo, che in seguito sfioreremo con almeno un’osservazione. È interessante che il creatore del mondo sia sempre solo uno, anche là dove si crede a più dei, e che sia per lo più un uomo, anche se non mancano allusioni a divinità femminili e qualche mitologia faccia cominciare la creazione del mondo da un dio maschile che elimina una divinità femminile, a sua volta degradata e trasformata in mostro. Qui si riallacciano i più interessanti problemi ma dobbiamo affrettarci. Il cammino che resta da fare è facilmente riconoscibile, essendo tale dio-creatore addirittura chiamato padre. La psicanalisi conclude che è realmente il padre, tanto grandioso quanto una volta appariva al bambino. L’uomo religioso immagina la creazione del mondo allo stesso modo della propria origine.

Allora si spiega facilmente come le rassicurazioni consolanti e le severe richieste etiche confluiscano nella cosmogonia. Infatti la stessa persona, cui il bambino deve la propria esistenza, il padre (o più correttamente l’istanza parentale composta da padre e madre), ha anche sorvegliato e protetto il bambino debole e inerme, esposto ai pericoli in agguato nel mondo; da lui tutelato, si è sentito protetto. Diventato adulto, l’uomo sa di possedere maggiori forze, ma è cresciuta anche la sua consapevolezza dei pericoli della vita e giustamente conclude di essere in fondo ancora inerme e indifeso come nell’infanzia e di essere rimasto di fronte al mondo sempre un bambino. Neppure ora vorrebbe rinunciare alla protezione goduta da piccolo. Ma da tempo ha riconosciuto che suo padre ha una potenza fortemente limitata; non è un essere dotato di tutti quei vantaggi illimitati [che immaginava]. Perciò risale all’immagine mnestica infantile del padre da lui tanto sopravvalutato, lo eleva a divinità e lo sposta nel presente e nella realtà. La forza affettiva di tale immagine mnestica con il perdurante bisogno di protezione porta alla fede in dio.

Anche il terzo punto cardinale del programma religioso, l’esigenza etica, si inserisce senza sforzi in questa situazione infantile. Vi ricordo il famoso detto di Kant che nomina il cielo stellato insieme alla legge morale nel nostro petto. Per quanto questa connessione suoni sconcertante – infatti cosa potrebbero avere a che fare i corpi celesti con la questione se un essere umano ami o uccida un altro? – essa sfiora una grande verità psicologica. Lo stesso padre (l’istanza parentale), che ha dato la vita al figlio e l’ha protetto dai pericoli, gli ha insegnato anche cosa può fare e cosa non può fare; l’ha istruito a farsi piacere certe limitazioni dei desideri pulsionali; lo porta a sapere quali riguardi nei confronti dei fratelli e dei genitori ci si aspettano da lui, se vuole diventare un membro tollerato e ben visto ora nella cerchia familiare e poi in associazioni più ampie. Attraverso un sistema di premi e di punizioni il bambino viene educato a riconoscere i propri doveri sociali; gli viene insegnato che la sua sicurezza nella vita dipende dall’amore dei genitori e poi anche degli altri, potendo essi credere al suo amore per loro. Poi l’uomo trasferisce immodificati tutti questi comportamenti nella religione. I divieti e le richieste dei genitori sopravvivono nel suo petto come coscienza morale. Grazie allo stesso sistema di premi e punizioni dio regge il mondo degli uomini; dal compimento delle richieste etiche dipende la misura di protezione e felicità riservata al singolo. Sull’amore per dio e sulla coscienza di esserne riamati si fonda la sicurezza con cui ci si arma contro i pericoli del mondo esterno e dei propri contemporanei. Alla fine, attraverso la preghiera, ci si assicura l’influenza diretta sulla volontà divina e così si partecipa all’onnipotenza di dio.

So che ascoltandomi sono sorti in Voi molti interrogativi, a cui gradireste avere una risposta. Oggi in questa sede non posso affrontarli, ma sono fiducioso che nessuna ricerca dettagliata smonterebbe la tesi che la concezione religiosa sia determinata dalla nostra situazione infantile. Tanto più degno di nota è allora il fatto che, nonostante il suo carattere infantile, essa abbia avuto pure un precursore. È senza dubbio esistito un tempo senza religione e senza dei. Si chiama animismo. Allora il mondo era pieno di esseri spirituali simili all’uomo; li chiamiamo demoni; tutti gli oggetti del mondo esterno erano la loro sede o forse essi erano identici a loro, ma non esisteva nessuna potenza superiore che li avesse creati tutti e che predominasse anche in seguito, con la possibilità di rivolgersi ad essa per difesa o riparo. I demoni dell’animismo avevano per lo più intenzioni ostili verso l’uomo, ma sembra che allora l’uomo avesse una fiducia in sé stesso maggiore che in seguito. Certamente era di continuo afflitto dalla paura di questi cattivi spiriti, ma si difendeva da loro con determinate azioni, cui attribuiva la forza di scacciarli. Non si riteneva impotente anche nei confronti di altro. Se aveva un desiderio da rivolgere alla natura, per esempio se voleva la pioggia, non pregava il dio del maltempo, ma praticava un incantesimo, da cui si attendeva che la natura fosse direttamente influenzata, facendo egli stesso qualcosa di simile alla pioggia. Nella lotta contro le potenze ambientali la sua prima arma fu la magia, la prima precorritrice dell’odierna nostra tecnica. Presumiamo che la fiducia nella magia derivasse dalla sopravvalutazione delle proprie operazioni intellettuali, dalla fede nella “onnipotenza dei pensieri”, che del resto ritroviamo nei nostri nevrotici ossessivi. Potremmo immaginare che gli uomini di quel tempo andassero particolarmente fieri delle proprie acquisizioni linguistiche, cui doveva accompagnarsi una grande facilitazione del pensiero. Attribuivano alla parola la forza d’incantare. Questo tratto fu in seguito ripreso dalla religione. “E Dio disse: ‘Sia la luce?’ E la luce fu”. Del resto la realtà delle azioni magiche dimostra che l’uomo animistico non faceva semplicemente affidamento sulla potenza dei desideri. Si attendeva il successo dall’eseguire un atto che avrebbe dovuto indurre la natura a imitarlo. Se voleva pioggia, spruzzava acqua egli stesso; se voleva stimolare la fecondità di un terreno, allestiva lo spettacolo di un rapporto sessuale in mezzo ai campi.

Lo sapete che una volta che qualcosa ha acquisito una manifestazione psichica, difficilmente svanisce. Non sarete allora sorpresi sentendo che molte manifestazioni dell’animismo si sono mantenute fino a oggi, per lo più come le cosiddette superstizioni accanto o dietro la religione. Ma c’è di più; difficilmente potreste respingere il giudizio che la nostra filosofia ha conservato il tratto essenziale della forma di pensiero dell’animismo, cioè la sopravvalutazione dell’incantesimo della parola, la fede che i reali processi del mondo seguano le vie che i nostri pensieri pretendono indicargli. Sarebbe di certo un animismo senza azioni magiche. D’altra parte potremmo aspettarci che già a quell’epoca sia esistita una forma di etica, delle prescrizioni per i rapporti reciproci tra uomini, ma niente depone a favore del fatto che fossero intimamente connesse alle credenze animistiche. Probabilmente erano l’espressione diretta dei rapporti di forza tra gli uomini e dei loro bisogni pratici.

Sarebbe molto interessante sapere cosa abbia costretto a passare dall’animismo alla religione, ma potete immaginare quale oscurità ricopra ancora oggi quei primordi dell’evoluzione dello spirito umano. Sembra un fatto assodato che la prima forma fenomenologica di religione sia stata quello strano totemismo cui fecero seguito anche i primi comandamenti etici, i tabù. A suo tempo, in un libro intitolato Totem e tabù, ho elaborato la congettura che riconduce questa trasformazione al capovolgimento dei rapporti della famiglia umana. Il risultato principale della religione paragonata all’animismo sta nell’aver psichicamente vincolato la paura dei demoni. Tuttavia, come sopravvivenza preistorica, lo Spirito Maligno ha mantenuto un posto nel sistema della religione.

Se questa è la preistoria della concezione religiosa, rivolgiamoci ora a quel che da allora è successo ed è ancora sotto ai nostri occhi. Nel corso del tempo lo spirito scientifico, rinvigorito dall’osservazione dei processi naturali, ha cominciato a trattare la religione come una faccenda umana, sottoponendola a un esame critico. A ciò la religione non ha saputo reggere. In primo luogo sono stati i racconti dei miracoli a suscitare sconcerto e incredulità, perché contraddicevano tutto ciò che l’osservazione serena aveva insegnato e tradivano chiaramente l’influenza dell’attività fantastica dell’uomo. In seguito, si dovettero respingere le dottrine che spiegavano il mondo esistente, in quanto dimostravano un’ignoranza con il marchio dei vecchi tempi, alla quale ora l’uomo si sentiva superiore grazie alla maggiore confidenza con le leggi naturali. Da quando al pensiero si impose la differenza tra gli esseri viventi e animati e la natura non vivente, per cui divenne impossibile mantenere l’originario animismo, la supposizione che il mondo originasse da atti di generazione o di creazione, analogamente all’origine del singolo uomo, non apparve altro che l’ipotesi più ovvia ed evidente. Non trascurabile fu anche l’influenza dello studio comparativo dei diversi sistemi religiosi e l’impressione delle loro contrastanti conclusioni e della loro reciproca intolleranza.

Irrobustito da questi esercizi preliminari, alla fine lo spirito scientifico prese coraggio per avventurarsi nell’esame delle parti più significative e di maggior valore affettivo della Weltanschauung religiosa. Si sarebbe sempre potuto vederlo – ma solo più tardi si ebbe il coraggio di esprimerlo – che le promesse della religione di dare protezione e felicità, a patto di soddisfare certe richieste etiche, si dimostrarono anch’esse inattendibili. Non sembra plausibile che nell’universo esista una potenza che con cura paterna vegli sul benessere del singolo e porti a lieto fine tutto ciò che lo riguarda. Piuttosto i destini dell’uomo non sono conciliabili né con l’ipotesi di benevolenza universale né con quella, parzialmente contrastante, di giustizia universale. Terremoti, inondazioni, incendi non fanno distinzioni tra il buono o il pio e il briccone o l’infedele. Anche là dove la natura inanimata non c’entra, nella misura in cui il destino del singolo individuo dipende dai suoi rapporti con gli altri, non è assolutamente la regola che la virtù sia compensata e il male punito; anzi, abbastanza spesso il violento, l’astuto, l’irriguardoso s’impossessano degli invidiati beni del mondo e il pio resta a bocca asciutta. Potenze oscure, insensibili e spietate determinano la sorte dell’uomo. Il sistema di ricompense e castighi, cui la religione deve il dominio del mondo, sembra non esistere. Ecco un nuovo motivo per far cadere parte di quell’animazione che dall’animismo si era rifugiata nella religione.

La psicanalisi ha arrecato l’ultimo contributo alla critica della Weltanschauung religiosa, indicando l’origine della religione nello stato del bambino inerme e derivando i suoi contenuti dai desideri e dai bisogni infantili, protratti nella maturità. Ciò non significa una vera e propria confutazione della religione, ma un necessario perfezionamento del nostro sapere su di essa, per contraddirla in almeno in un punto, cioè nella sua pretesa di avere origine divina. Certo è che non ha tutti i torti, ammessa la nostra interpretazione di dio.

Allora il giudizio riassuntivo della scienza sulla Weltanschauung religiosa suona così: mentre le singole religioni sono in reciproco conflitto su quale di loro possegga la verità, noi pensiamo che il loro contenuto di verità sia in generale trascurabile. La religione è un tentativo di dominare il mondo sensibile, dove siamo immersi, attraverso il mondo dei desideri che abbiamo sviluppato in noi per necessità biologiche e psicologiche. Ma non ci può riuscire. Le sue dottrine portano il segno di quando sono sorte: l’infanzia ignorante dell’umanità. Le sue consolazioni non meritano fiducia. L’esperienza ci insegna che il mondo non è la cameretta dei bambini. Le richieste etiche, che la religione vuole accentuare, esigono altri fondamenti, perché sono indispensabili alla società umana ed è pericoloso collegare il loro adempimento alla credenza religiosa. Tentare di inserire la religione nel corso evolutivo dell’umanità non sembra un’acquisizione duratura, ma somiglia al frammento di nevrosi che la singola persona civile deve attraversare sulla via che porta dall’infanzia alla maturità.

Naturalmente siete liberi di criticare questa mia esposizione e io stesso vi verrò incontro. Quel che vi ho detto intorno alla graduale disgregazione della Weltanschauung religiosa, nella sua forma abbreviata, è stato certamente incompleto; non è stata del tutto correttamente riferita l’interazione delle diverse forze al risvegliarsi dello spirito scientifico. Così pure ho trascurato i mutamenti realizzati nella Weltanschauung religiosa già durante il suo indiscusso predominio, completati poi sotto l’influenza della montante critica. Infine, in senso stretto, ho limitato la mia discussione a una sola forma di religione, quella dei popoli occidentali. Per accelerare la dimostrazione e renderla al massimo possibile perspicua, mi sono creato, per così dire, un fantasma. Lasciamo da parte la questione se il mio sapere sarebbe bastato a renderla migliore e più completa. So che potete trovare altrove tutto ciò che vi ho detto, forse anche di meglio; non c’è niente di nuovo. Lasciatemi esprimere la convinzione che anche la rielaborazione più accurata del materiale del problema religioso non scuoterebbe il nostro risultato.

Sapete che la lotta dello spirito scientifico contro la Weltanschauung religiosa non è finita ma si sta ancora svolgendo sotto i nostri occhi. Per quanto di solito la psicanalisi faccia poco uso delle armi della polemica, non vogliamo astenerci dal prendere visione di questa disputa. Ne trarremmo forse un ulteriore chiarimento della nostra posizione rispetto alle Weltanschauungen. Vedrete quanto sia facile respingere alcuni argomenti addotti dai seguaci della religione; altri potrebbero sottrarsi alla confutazione.

La prima obiezione che si sente muovere è che sarebbe presuntuoso da parte della scienza mettere sotto esame la religione, perché è qualcosa di sovrano, di superiore rispetto a qualsiasi comprensione umana, che non è lecito approcciare con critiche cavillose. In altri termini, la scienza non è competente a giudicare la religione; è utilizzabile e apprezzabile finché si limita al suo campo; ma la religione non rientra nel suo campo, perciò la scienza non deve fare ricerche su di essa. Se non ci si lascia inibire da questo brusco rifiuto e si insiste a chiedere su cosa si fondi questa pretesa di occupare un posto d’eccezione in tutte le faccende umane, si ottiene come risposta – ammesso di essere ritenuti degni di una risposta – che la religione non può essere misurata con il metro umano, perché è di origine divina, data a noi per rivelazione di uno spirito, che lo spirito umano non riesce a concepire. Si intende che nulla è più facile da contestare di questo argomento, trattandosi chiaramente di una petitio principi,[3] di un begging the question[4] non conosco una buona espressione tedesca per dirlo. Succede qui come a volte nel lavoro analitico. Se un paziente altrimenti ragionevole rifiuta una determinata pretesa con una scusa particolarmente sciocca, la debolezza logica nasconde un motivo di resistenza particolarmente forte, che può essere solo un legame emotivo di natura affettiva.

Si può ottenere anche un’altra risposta dove tale motivo è apertamente confessato. La religione non può essere sottoposta a critica perché è quanto di più alto, valido ed elevato lo spirito umano abbia prodotto; esprimendo i sentimenti più profondi, solo essa rende il mondo sopportabile e la vita degna di essere vissuta. Non bisogna rispondere contestando la valorizzazione della religione, ma orientando l’attenzione verso un altro dato di fatto. Si sottolinei che non si tratta di ingerenza dello spirito scientifico in campo religioso, ma viceversa di ingerenza della religione nella sfera del pensiero scientifico. Quali che siano il suo valore e il suo significato, la religione non ha il diritto di limitare in qualsiasi modo il pensiero, quindi neppure di autoescludersi dal pensiero.

Il pensiero scientifico non differisce essenzialmente dalla normale attività mentale che noi tutti, credenti e non credenti, applichiamo nella vita per sbrigare le nostre faccende. Ha solo accentuato alcuni tratti particolari; si interessa anche di cose che nell’immediato non hanno alcuna concepibile utilità; si sforza accuratamente di tener lontano ogni fattore individuale e ogni influenza affettiva; esamina con il maggior rigore le percezioni sensoriali, su cui basa le sue conclusioni; si dà da fare per ottenerne di nuove, irraggiungibili con i mezzi della vita quotidiana e isola le condizioni di queste nuove esperienze in tentativi intenzionalmente diversificati. La sua aspirazione è di arrivare a coincidere con la realtà, cioè con ciò che sta fuori di noi, non dipende da noi e, come ci ha insegnato l’esperienza, è decisivo per realizzare o vanificare i nostri desideri. Chiamiamo verità questa coincidenza con il mondo esterno reale. Essa rimane la meta del lavoro scientifico, anche a prescindere dal suo valore pratico. Se allora la religione afferma di poter sostituire la scienza e di poterlo fare perché è benefica ed edificante, questa è di fatto un’ingerenza da respingere nell’interesse generale. All’uomo, che ha imparato a trattare le comuni faccende secondo le regole dell’esperienza e nel rispetto della realtà, si chiede troppo prescrivendogli di affidare la cura dei propri più intimi interessi a un’istanza che pretende il privilegio di essere libera dalle prescrizioni del pensiero razionale. Per quanto riguarda la protezione, che la religione promette ai suoi fedeli, credo che nessuno di noi vorrebbe salire su un’automobile se l’autista dichiarasse di guidare senza tener conto del codice della strada, seguendo gli impulsi della propria fantasia esaltata.

Il divieto di pensare, emanato dalla religione, le serve ad auto-mantenersi, ma non è scevro di pericoli, né per il singolo né per la collettività umana. L’esperienza analitica ci ha insegnato che tale divieto, anche se originariamente limitato a un certo campo, tende a estendersi e a causare pesanti inibizioni nel modo di vivere della persona. Questo effetto può essere osservato anche nel genere femminile, come conseguenza del divieto di pensare anche solo di occuparsi della propria sessualità. La pericolosità dell’inibizione religiosa a pensare può essere confermata dalla biografia di quasi tutte le personalità illustri del passato. D’altra parte l’intelletto – o per chiamarlo con il suo nome a noi familiare, la ragione – è una di quelle potenze da cui è lecito aspettarsi prima di tutto una crescente influenza unificatrice sugli uomini, che sono così difficili da tenere insieme e sono quasi ingovernabili. Si immagini come diventerebbe impossibile la società umana se ognuno avesse la propria tavola pitagorica o la propria particolare unità di misura di lunghezza o di peso. La nostra migliore speranza è che l’intelletto – lo spirito scientifico, la ragione – instauri nel tempo la propria dittatura sulla vita psichica umana. L’essenza della ragione garantisce di non trascurare di far il posto dovuto alle emozioni umane e a quanto determinano. Ma la costrizione comune del predominio della ragione si dimostrerà il più forte legame unificante tra uomini, avviando sempre più ampie unificazioni. Ciò che si oppone a tale sviluppo, come il divieto religioso di pensare, costituisce un pericolo per il futuro dell’umanità.

Ci si può ora chiedere perché la religione non ponga fine alla controversia per essa è senza via d’uscita, chiarendo esplicitamente: “Sì, io non posso darvi ciò che comunemente si chiama verità; per la verità dovete attenervi alla scienza. Ma quel che ho da darvi è incomparabilmente più bello, più consolante e più edificante di tutto ciò che potete ottenere dalla scienza. Perciò vi dico che ciò è vero in un altro senso superiore”. Facile trovare la risposta. La religione non può concederlo, perché così perderebbe ogni influenza sulla massa. L’uomo comune conosce una sola verità nel senso comune della parola. Non sa rappresentarsi cosa sia una verità superiore o suprema. La verità, come la morte, non gli sembra incrementabile e non sa partecipare al salto dal bello al vero. Forse penserete come me che fa bene.

La lotta non finisce qui. I seguaci della Weltanschauung religiosa agiscono secondo la vecchia massima: la miglior difesa è l’attacco. Domandano: “Ma chi è questa scienza che non si perita di screditare la nostra religione che per millenni ha dispensato salvezza e consolazione a milioni di persone? Cos’ha prodotto da parte sua? Cosa possiamo ulteriormente aspettarci da essa? Per sua stessa ammissione è incapace di consolare e di edificare. Prescindiamo pure da questo, sebbene non sia una rinuncia leggera. Ma che ne è delle sue teorie? Ci può dire come si è originato il mondo e a quale destino va incontro? È in grado di tracciare almeno un quadro coerente del mondo, di indicarci dove e come vanno sistemati i fenomeni non chiariti della vita, come le forze spirituali possano fare effetto sulla materia inerte? Sapesse rispondere, non rinunceremmo a prestarle attenzione. Ma niente di tutto ciò; non ha ancora risolto neppure uno di questi problemi. Ci dà frammenti di presunta conoscenza, che non riesce a far concordare, raccoglie osservazioni sulla regolarità nel corso degli avvenimenti che contraddistingue con il nome di leggi e sottopone alle sue arrischiate interpretazioni. E con quale grado di certezza espone i suoi risultati! Tutto ciò che insegna vale solo provvisoriamente. Ciò che oggi è decantato come la massima sapienza, domani è rigettato e di nuovo sostituito da altro solo a titolo di prova. L’ultimo errore si chiama verità. E a questa verità dovremmo sacrificare il nostro bene supremo?”

Signore e signori! Se davvero aderite alla Weltanschauung scientifica qui attaccata, non sarete profondamente scossi da tale critica. Tempo fa nell’Austria imperiale circolava un motto che vorrei qui ricordare. Il Vecchio Signore gridò una volta alla delegazione di un partito per lui scomodo: “Questa non è più opposizione comune; è opposizione faziosa!”. Analogamente troverete che i rimproveri alla scienza di non avere ancora risolto l’enigma del mondo siano mossi in modo ingiusto e odioso; in realtà, per tali grandi prestazioni la scienza ha avuto finora troppo poco tempo. La scienza è troppo giovane; è un’attività umana sviluppatasi troppo tardi. Teniamo presente, tanto per selezionare alcuni dati, che sono passati circa 300 anni da quando Keplero trovò la legge del moto dei pianeti; Newton, che scompose la luce nei suoi colori e formulò la teoria della forza di gravità, morì nel 1727, cioè poco più di duecento anni fa; Lavoisier scoprì l’ossigeno poco prima della rivoluzione francese. L’esistenza dell’uomo è molto breve a confronto dell’evoluzione umana; oggi posso essere un uomo molto anziano, ma ero già in vita quando Charles Darwin diede alle stampe la sua opera sull’origine delle specie. Nello stesso anno 1859 nacque lo scopritore del radio, Pierre Curie. Tornando indietro nel tempo, alle origini della scienza esatta della natura tra i Greci, ad Archimede, ad Aristarco di Samo (circa 250 a.C.), precorritore di Copernico, o addirittura ai primi albori dell’astronomia presso i babilonesi, avrete scoperto solo una piccola frazione del tempo che l’antropologia assume per lo sviluppo dell’uomo dalla sua primitiva forma scimmiesca, che certamente comprende più di centomila anni. E non dimentichiamo che l’ultimo secolo ha prodotto una tale quantità di nuove scoperte, una tale accelerazione dello sviluppo scientifico, da avere tutte le ragioni per guardare con fiducia allo sviluppo della scienza.

Dobbiamo in certa misura dare ragione alle altre esternazioni. Così è il procedere della scienza: lento, incerto, faticoso. Non lo si può negare né lo si può modificare. Non meraviglia che i signori dell’altra sponda siano insoddisfatti; sono abituati ad avere tutto facilitato dalla rivelazione. Il progresso del lavoro scientifico si compie in modo del tutto analogo a un’analisi. Nel lavoro [analitico] si apportano alcune aspettative, ma vanno represse. Con l’osservazione si viene a sapere qualcosa di nuovo un po’ qui e un po’ là; i frammenti non combaciano immediatamente insieme. Si stabiliscono congetture; si fanno costruzioni ausiliarie, ritrattabili se non confermate; ci vuole molta pazienza, disponibilità a tutte le evenienze; si rinuncia a tutte le precedenti convinzioni, per non trascurare sotto la loro pressione fattori inaspettati; alla fine tutto il dispendio di energie vien ripagato; le scoperte disperse convergono, si guadagna la visione di tutto un settore dell’accadere psichico; si è portato a termine un compito e si è pronti per il successivo. In analisi si deve fare a meno dell’aiuto che l’esperimento dà alla ricerca.

A quella critica alla scienza non manca anche una buona dose di esagerazione. Non è vero che la scienza brancoli nel buio da un tentativo all’altro, scambiando un errore con l’altro. Di regola lavora come l’artista al modello di creta, variando instancabilmente, aggiungendo e togliendo al rozzo progetto [iniziale], finché non abbia raggiunto un ragionevole grado di somiglianza con l’oggetto visto o rappresentato. Almeno nelle scienze più vecchie e più mature esiste ancora oggi un solido fondamento che viene solo modificato ed esteso ma non può più essere demolito. Nell’impresa scientifica non va tutto così male.

E alla fine a cosa mirano queste appassionate denigrazioni della scienza? Malgrado la sua attuale incompletezza e le connesse difficoltà, la scienza rimane per noi indispensabile e insostituibile con qualcosa d’altro. È capace di insospettabili perfezionamenti; la Weltanschauung religiosa no, essendo compiuta in tutte le sue componenti essenziali; se errore c’è stato, deve rimanere per sempre. Nessun tentativo di sminuire la scienza può minimamente modificare il fatto di tentare di giustificare la nostra dipendenza dal mondo esterno reale, mentre la religione è un’illusione, che trae forza compiacendo ai nostri desideri pulsionali.

Ho il dovere di considerare anche altre Weltanschauungen che contrastano con la scientifica. Lo faccio malvolentieri, sapendo che mi manca la giusta competenza per giudicarle. Accogliete le osservazioni seguenti con questa avvertenza; se susciteranno il vostro interesse, cercate altrove una migliore istruzione.

In primo luogo andrebbero qui citati i sistemi che hanno osato tracciare un quadro del mondo come riflesso nello spirito di pensatori per lo più ritirati dal mondo. Ho già tentato di dare una caratterizzazione generale della filosofia e dei suoi metodi, ma sono adatto meno di altri a valutare i singoli sistemi. Prendete allora in considerazione con me due altri fenomeni non trascurabili del nostro tempo.

Una di queste Weltanschauungen fa da pendant all’anarchismo politico, di cui forse è un’emanazione. Di siffatti nichilisti intellettuali se ne erano già visti in passato, ma attualmente sembra che la teoria della relatività della fisica moderna abbia dato loro alla testa. Partono dalla scienza ma intendono spingerla all’auto-superamento, al suicidio; le assegnano il compito di farsi sparire dalla circolazione confutando le proprie pretese. Si ha spesso l’impressione che tale nichilismo sia solo un atteggiamento temporaneo, da mantenere fino al compimento di questo compito. Messa da parte la scienza, nello spazio così liberato si può espandere qualche misticismo o ancora di nuovo la vecchia Weltanschauung religiosa. Per la dottrina anarchica non esiste alcuna verità né conoscenza accertata del mondo esterno. Ciò che spacciamo per verità scientifica è solo il prodotto dei nostri bisogni, che devono esprimersi in condizioni esterne mutevoli, quindi di nuovo un’illusione. In fondo troviamo solo ciò di cui abbiamo bisogno; vediamo solo ciò che vogliamo vedere. Non possiamo fare diversamente. Venuto meno il criterio di verità come coincidenza con il mondo esterno, è del tutto indifferente a quale opinione aderiamo. Sono tutte ugualmente vere e ugualmente false. Nessuno ha diritto di accusare l’altro di sbagliare.

Uno spirito orientato ai problemi di teoria della conoscenza può trovare allettante rintracciare per quali vie e per quali sofismi gli anarchici riescano a strappare alla scienza simili conclusioni. Si dovrebbe incappare in situazioni simili a quelle derivanti dal noto esempio: “Un Cretese dice: ‘Tutti i cretesi sono mentitori’, ecc.”. Ma mi manca la voglia e la capacità di approfondire la questione. Posso solo dire che la dottrina anarchica sembra spaventosamente elevata finché si riferisce a opinioni su cose astratte, ma fallisce al primo passo nella vita pratica. Ora le azioni degli uomini sono dirette dalle loro opinioni e conoscenze; è lo stesso spirito scientifico che specula sulla costituzione dell’atomo o sull’origine dell’uomo a progettare un ponte capace di sostenere un carico. Se quel che pensiamo fosse realmente indifferente, tra le nostre opinioni non ci sarebbero conoscenze contraddistinte per il fatto di coincidere con la realtà; allora potremmo costruire altrettanto bene ponti di cartone come ponti di pietra, iniettare al malato un decigrammo di morfina invece di un centigrammo, usare per la narcosi gas lacrimogeno invece che etere. Ma anche degli intellettuali anarchici rifiuterebbero energicamente queste applicazioni pratiche della loro teoria.

L’altra opposizione va presa molto più sul serio; anche in questo caso deploro nel modo più vivo l’inadeguatezza della mia informazione. Presumo che in materia ne sappiate più di me e che da tempo abbiate preso posizione pro o contro il marxismo. Ai nostri tempi, gli studi di Karl Marx sulla struttura economica della società e sull’influenza delle diverse forme di economia in tutti i campi della vita umana hanno guadagnato un’indiscussa autorità. Naturalmente non posso sapere quanto nei dettagli corrispondano al vero o siano sbagliate. Sento dire che anche ad altri più informati di me non riesce facile [giudicarle]. Nella teoria marxiana mi hanno sorpreso certe asserzioni come quella che l’evoluzione delle forme sociali sarebbe un processo di storia naturale o che le trasformazioni negli strati sociali si susseguono l’un l’altra in un processo dialettico. Non sono sicuro di comprendere bene queste affermazioni; non mi sembrano “materialiste”, ma un precipitato di quell’oscura filosofia hegeliana, la cui scuola anche Marx frequentò. Non so come fare a liberarmi dalla mia mentalità laica, abituata com’è a ricondurre la formazione delle classi sociali alla lotta che sin dall’inizio della storia si svolsero tra orde umane di poco differenti. Ho pensato che le differenze sociali fossero inizialmente differenze di stirpe o di razza. Fattori psicologici, come il grado di aggressività costituzionale, ma anche la solidità dell’organizzazione interna dell’orda o il possesso di armi migliori, decisero la vittoria. Convivendo sullo stesso territorio, i vincitori divennero i padroni, i vinti gli schiavi. Qui non c’è da scoprire nessuna legge naturale né trasformazione concettuale. Per contro è evidente l’influenza che il progressivo dominio delle forze naturali esercita sui rapporti sociali tra uomini, che pongono gli strumenti di potere di nuova acquisizione a servizio della propria aggressività, applicandoli l’uno contro l’altro. L’introduzione del metallo, del bronzo, del ferro, ha segnato la fine di intere civiltà e delle loro istituzioni sociali. Io credo realmente che la polvere da sparo e le armi da fuoco abbia abolito la cavalleria e il dominio dei nobili e che il dispotismo russo era condannato già prima di perdere la guerra, perché nessun incrocio tra famiglie regnanti in Europa avrebbe potuto produrre un genere di zar in grado di resistere alla potenza esplosiva della dinamite.

Chissà, forse con l’attuale crisi economica connessa alla guerra mondiale paghiamo il prezzo per l’ultima grandiosa vittoria sulla natura, la conquista dello spazio aereo. Ciò non sembra molto illuminante, ma almeno i primi anelli della catena sono chiaramente riconoscibili. La politica dell’Inghilterra si fondava sulla sicurezza garantita dal mare che lambiva le sue coste. Dal momento in cui Blériot sorvolò in aeroplano la Manica, questo isolamento protettivo si ruppe. In quella notte in cui uno Zeppelin tedesco volteggiò sopra Londra, in tempo di pace e a scopo di esercitazione, fu praticamente decisa la guerra contro la Germania.[5] Non si dimentichi contestualmente la minaccia del sottomarino.

Quasi mi vergogno di trattare davanti a Voi un tema di tale importanza e complessità con così poche e insufficienti osservazioni; so anche di non aver detto niente di nuovo per Voi. Mi preme solo farvi notare che il rapporto dell’uomo con il dominio della natura, da cui trae le armi per combattere contro i propri simili, deve necessariamente influenzare anche le sue istituzioni economiche. Sembra che ci siamo allontanati dai problemi della Weltanschauung, ma ci torneremo presto.

Chiaramente la forza del marxismo non sta nella sua concezione della storia e nella previsione del futuro basata su di essa, ma nella sagace dimostrazione dell’influenza coercitiva che le condizioni economiche degli uomini esercitano sui loro atteggiamenti intellettuali, etici ed estetici. Fu così scoperta una serie di connessioni e dipendenze fino ad allora quasi interamente ignorate. Ma non si può ammettere che i fattori economici siano gli unici a determinare il comportamento degli uomini nella società civile. Già l’indubitabile dato di fatto che persone, razze e popoli diversi si comportino diversamente nelle stesse condizioni economiche esclude il potere assoluto dei fattori economici. Quando si tratta delle reazioni di esseri umani viventi, non si capisce come si possano trascurare i fattori psicologici; infatti tali fattori non solo avevano già preso parte nel produrre i rapporti economici, ma anche sotto il loro predominio gli uomini non possono far altro che mettere in gioco i loro moti pulsionali: la pulsione di autoconservazione, il piacere di aggredire, il bisogno d’amore, la spinta a ottenere piacere e a evitare dispiacere.

In una precedente analisi abbiamo fatto valere anche l’importanza del diritto del Super-Io, che rappresenta la tradizione e le formazioni ideali del passato e che per un certo tempo opporrà resistenza agli stimoli della nuova situazione economica. Non vogliamo infine dimenticare che sopra la massa degli uomini, soggetta alle necessità economiche, decorre anche il processo dello sviluppo civile – della civilizzazione, dicono altri – che è certamente influenzato da tutti gli altri fattori, ma sicuramente all’origine ne è indipendente, paragonabile a un processo organico, che a sua volta è perfettamente in grado di interagire con gli altri fattori. Tale processo sposta le mete pulsionali; fa sì che gli uomini si oppongano a quanto prima tolleravano. Sembra inoltre che il progressivo rafforzamento dello spirito scientifico sia una sua componente essenziale.

Se qualcuno fosse in grado di dimostrare nei dettagli come si comportano e come reciprocamente si inibiscono o si favoriscono questi diversi fattori – la generale disposizione pulsionale umana con le sue varianti razziali e le trasformazioni culturali, date le condizioni dell’ordinamento sociale, dell’attività lavorativa, della possibilità di guadagno – se qualcuno riuscisse a fare tutto questo, allora costui avrebbe integrato il marxismo in una vera e propria scienza sociale. Infatti anche la sociologia, che tratta del comportamento dell’uomo nella società, non può essere altro che psicologia applicata. In senso stretto esistono solo due scienze: la psicologia, pura e applicata, e la scienza della natura.

Accanto alla nuova intuizione sulla massima importanza dei rapporti economici affiorò la tentazione di non lasciare all’evoluzione storica il loro cambiamento, ma di imporlo con un intervento rivoluzionario. Realizzandosi ora nel bolscevismo russo, il marxismo teorico ha acquisito energia, compattezza ed esclusività proprie di una Weltanschauung, ma al tempo stesso un’inquietante somiglianza con ciò che combatteva. Originariamente un pezzo di scienza, costruito sulla scienza e sulla tecnica, il bolscevismo ha tuttavia sviluppato un divieto di pensare così inesorabile come a suo tempo la religione. L’analisi critica della teoria marxiana è interdetta, i dubbi sulla sua correttezza sono puniti come una volta la Chiesa cattolica puniva le eresie. Come fonte di rivelazione le opere di Marx hanno preso il posto della Bibbia e del Corano, pur non essendo meno scevre di contraddizioni e oscurità rispetto agli antichi libri sacri.

Sebbene il marxismo pratico abbia fatto inesorabilmente piazza pulita di tutti i sistemi idealistici e di tutte le illusioni, ha a sua volta generato illusioni non meno discutibili e indimostrabili delle precedenti. Spera di cambiare la natura umana nel corso di poche generazioni in modo che nel nuovo ordinamento sociale si dia una convivenza umana quasi senza attriti e il compito di lavorare sia assunto senza costrizioni. Intanto trasferisce altrove le restrizioni pulsionali indispensabili alla società e dirige all’esterno le tendenze aggressive che minacciano ogni collettività umana, appoggiandosi sull’ostilità dei poveri contro i ricchi, degli impotenti di oggi contro i potenti di ieri. Ma tale trasformazione della natura umana è molto inverosimile. Finché il nuovo ordinamento è incompleto e minacciato dall’esterno, l’attuale entusiasmo con cui la massa segue l’istigazione bolscevica non dà garanzie per il futuro, quando sarà completato e fuori pericolo. Proprio come la religione, anche il bolscevismo deve risarcire i propri fedeli per le sofferenze e le privazioni, promettendo un aldilà migliore, dove non esisteranno più bisogni insoddisfatti. Tuttavia tale paradiso deve essere al di qua, istituito sulla terra e inaugurato in un lasso di tempo prevedibile. Ma ricordiamo che anche gli ebrei, la cui religione non sa nulla di vite nell’aldilà, hanno aspettato l’arrivo del messia sulla terra e il Medioevo cristiano ha a più riprese creduto all’imminenza del regno di dio.

Non ci sono dubbi su come il bolscevismo risponderà a queste contestazioni. Finché la natura degli uomini non cambierà profondamente – dirà – bisogna servirsi dei mezzi che oggi agiscono su di essa. Per educarli non si può fare a meno della costrizione, del divieto di pensare, non si può fare a meno di applicare la violenza fino allo spargimento di sangue; se quelle illusioni si ridestassero in loro [spontaneamente], non ci sarebbe bisogno di ricorrere alla costrizione. E potrebbe gentilmente chiederci come si possa fare altrimenti. Allora saremmo a terra. Non saprei che consigli dare. Confesserei che le condizioni di questo esperimento avrebbero trattenuto dall’intraprenderlo me e uomini come me, ma non siamo i soli per cui vale questo. Vi sono anche uomini d’azione, incrollabili nel loro agire, inaccessibili al dubbio, insensibili alle sofferenze degli altri se tagliano la strada alle loro intenzioni. A loro dobbiamo se ora in Russia è realmente in corso un grandioso esperimento per tale nuovo ordinamento. In un’epoca in cui grandi nazioni annunciano di aspettarsi la salvezza solo dal mantenere salda la pietà cristiana, la rivoluzione russa – nonostante tutti gli sgradevoli particolari – fa l’effetto di un messaggio di un futuro migliore. Purtroppo, né dal nostro dubbio, né dalla fede fanatica degli altri sortirà un’indicazione su come finirà l’esperimento. Lo insegnerà il futuro; forse mostrerà che l’esperimento è stato prematuramente intrapreso e che il radicale cambiamento dell’ordine sociale ha scarse prospettive di successo finché nuove scoperte non avranno accresciuto il nostro dominio sulla natura, facilitando la soddisfazione dei nostri bisogni. Forse solo allora sarà possibile che il nuovo ordinamento sociale non solo bandisca il bisogno materiale delle masse, ma esaudisca anche le esigenze culturali dei singoli. In verità, anche allora avremo da lottare per un tempo imprevedibilmente lungo contro le difficoltà che l’indomabile natura umana procura a ogni forma di comunità.

Signore e signori, per concludere consentitemi di riassumere quanto ho avuto modo di dire sulla relazione tra la psicanalisi e la questione della Weltanschauung. Penso che la psicanalisi non sia in grado di crearsi una propria Weltanschauung. Non ne ha bisogno; essa fa parte della scienza e può riconnettersi alla Weltanschauung scientifica, che tuttavia non merita questo nome altisonante, perché non riguarda tutto; è troppo incompleta; non ha pretese di compattezza né di formare sistema. Il pensiero scientifico è ancora troppo giovane tra gli uomini; non è ancora riuscito a venire a capo di troppi grandi problemi. Una Weltanschauung costruita sulla scienza ha, oltre l’accentuazione del mondo esterno reale, tratti essenzialmente negativi come la sottomissione alla verità e il rifiuto di ogni illusione. Chi dei nostri simili fosse insoddisfatto di tale stato di cose, chi per una momentanea consolazione pretendesse qualcosa di più, se lo procuri dove lo trova. Noi non ce la prenderemo con lui; non possiamo aiutarlo, ma neppure pensare diversamente per riguardo a lui.

Note

[1] [H. Heine, Il libro dei canti, Il ritorno, N. 58.]

[2] [Nel senso di analisi psicogenetica.]

[3] [In latino nel testo.]

[4] [In inglese nel testo.]

[5] Ciò mi è stato riferito da fonte affidabile nel primo anno di guerra.

Bibliografia

S. Freud, Neue Folge der Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse. XXXV. Vorlesung. Über eine Weltanschauung (1932), in Sigmund Freud Gesammelte Werke, vol. XV, Imago, Londra 1952, pp. 170-197.

H. Heine, Buch der Lieder, Hoffmann und Campe, Amburgo 1827.

 

Charles Darwin
Charles Darwin
Karl Marx
Karl Marx

 

Di seguito il testo originale.

XXXV. Vorlesung

Über eine Weltanschauung

[170] Meine Damen und Herren! Bei unserem letzten Beisammensein haben wir uns mit kleinen Alltagssorgen beschäftigt, gleichsam unser bescheidenes eigenes Haus bestellt. Nun wollen wir einen kühnen Anlauf nehmen und uns an die Beantwortung einer Frage wagen, die wiederholt von anderer Seite gestellt worden ist, ob die Psychoanalyse zu einer bestimmten Weltanschauung führt und zu welcher.

Weltanschauung ist, besorge ich, ein spezifisch deutscher Begriff, dessen Übersetzung in fremde Sprachen Schwierigkeiten machen dürfte. Wenn ich eine Definition davon versuche, wird sie Ihnen gewiß ungeschickt erscheinen. Ich meine also, eine Weltanschauung ist eine intellektuelle Konstruktion, die alle Probleme unseres Daseins aus einer übergeordneten Annahme einheitlich löst, in der demnach keine Frage offen bleibt und alles, was unser Interesse hat, seinen bestimmten Platz findet. Es ist leicht zu verstehen, daß der Besitz einer solchen Weltanschauung zu den Idealwünschen der Menschen gehört. Im Glauben an sie kann man sich im Leben sicher fühlen, wissen, was man anstreben soll, wie man seine Affekte und Interessen am zweckmäßigsten unterbringen kann.

Wenn das der Charakter einer Weltanschauung ist, so wird die Antwort für die Psychoanalyse leicht. Als eine Spezialwissenschaft, ein Zweig der Psychologie, – Tiefenpsychologie oder Psychologie [171] des Unbewußten, – ist sie ganz ungeeignet, eine eigene Weltanschauung zu bilden, sie muß die der Wissenschaft annehmen. Die wissenschaftliche Weltanschauung entfernt sich aber bereits merklich von unserer Definition. Die Einheitlichkeit der Welterklärung wird zwar auch von ihr angenommen, aber nur als ein Programm, dessen Erfüllung in die Zukunft verschoben ist. Sonst ist sie durch negative Charaktere ausgezeichnet, durch die Einschränkung auf das derzeit Wißbare und die scharfe Ablehnung gewisser, ihr fremder Elemente. Sie behauptet, daß es keine andere Quelle der Weltkenntnis gibt als die intellektuelle Bearbeitung sorgfältig überprüfter Beobachtungen, also was man Forschung heißt, daneben keine Kenntnis aus Offenbarung, Intuition oder Divination. Es scheint, daß | diese Auffassung in den letztvergangenen Jahrhunderten der allgemeinen Anerkennung sehr nahe war. Unserem Jahrhundert blieb es vorbehalten, den überheblichen Einwand zu finden, eine solche Weltanschauung sei ebenso armselig wie trostlos, übersehe die Ansprüche des Menschengeistes und die Bedürfnisse der menschlichen Seele.

Man kann diesen Einwand nicht energisch genug zurückweisen. Er ist ganz haltlos, denn Geist und Seele sind in genau der nämlichen Weise Objekte der wissenschaftlichen Forschung wie irgendwelche menschenfremden Dinge. Die Psychoanalyse hat ein besonderes Anrecht, hier das Wort für die wissenschaftliche Weltanschauung zu führen, weil man ihr nicht den Vorwurf machen kann, daß sie das Seelische im Weltbild vernachlässigt habe. Ihr Beitrag zur Wissenschaft besteht gerade in der Ausdehnung der Forschung auf das seelische Gebiet. Ohne eine solche Psychologie wäre allerdings die Wissenschaft sehr unvollständig. Nimmt man aber die Erforschung der intellektuellen und emotionellen Funktionen des Menschen (und der Tiere) in die Wissenschaft auf, so zeigt sich, daß an der Gesamteinstellung der Wissenschaft nichts geändert wird, es ergeben sich keine neuen Quellen des Wissens oder Methoden des Forschens. Intuition und Divination wären [172] solche, wenn sie existierten, aber man darf sie beruhigt zu den Illusionen rechnen, den Erfüllungen von Wunschregungen. Man erkennt auch leicht, daß jene Anforderungen an eine Weltanschauung nur affektiv begründet sind. Die Wissenschaft nimmt zur Kenntnis, daß das menschliche Seelenleben solche Forderungen erschafft, ist bereit, deren Quellen nachzuprüfen, hat aber nicht den geringsten Anlaß, sie als berechtigt anzuerkennen. Sie sieht sich im Gegenteil gemahnt, alles was Illusion, Ergebnis solcher Affektforderung ist, sorgfältig vom Wissen zu scheiden.

Das bedeutet keineswegs, diese Wünsche verächtlich bei Seite zu schieben oder ihren Wert fürs Menschenleben zu unterschätzen. Man ist bereit zu verfolgen, welche Erfüllungen dieselben sich in den Leistungen der Kunst, in den Systemen der Religion und der Philosophie geschaffen haben, aber man kann doch nicht übersehen, daß es unrechtmäßig und in hohem Grade unzweckmäßig wäre, die Übertragung dieser Ansprüche auf das Gebiet der Erkenntnis zuzulassen. Denn damit öffnet man die Wege, die ins Reich der Psychose, sei es der individuellen oder der Massenpsychose, führen, und entzieht jenen Strebungen wertvolle Energien, die sich der Wirklichkeit zuwenden, um, soweit es möglich ist, Wünsche und Bedürfnisse in ihr zu befriedigen.

Vom Standpunkt der Wissenschaft aus ist es unvermeidlich, hier Kritik | zu üben und mit Ablehnungen und Zurückweisungen vorzugehen. Es ist unzulässig zu sagen, die Wissenschaft ist ein Gebiet menschlicher Geistestätigkeit, Religion und Philosophie sind andere, ihr zum mindesten gleichwertig, und die Wissenschaft hat diesen beiden nichts dareinzureden; sie haben alle gleichen Anspruch auf Wahrheit und jedem Menschen steht es frei, zu wählen, woher er seine Überzeugung nehmen und wohin er seinen Glauben verlegen will. Eine solche Anschauung gilt als besonders vornehm, tolerant, umfassend und frei von engherzigen Vorurteilen. Leider ist sie nicht haltbar, sie hat Anteil an allen Schädlichkeiten einer ganz unwissenschaftlichen Weltanschauung und kommt ihr praktisch [173] gleich. Es ist nun einmal so, daß die Wahrheit nicht tolerant sein kann, keine Kompromisse und Einschränkungen zuläßt, daß die Forschung alle Gebiete menschlicher Tätigkeit als ihr eigen betrachtet und unerbittlich kritisch werden muß, wenn eine andere Macht ein Stück davon für sich beschlagnahmen will.

Von den drei Mächten, die der Wissenschaft Grund und Boden bestreiten können, ist die Religion allein der ernsthafte Feind. Die Kunst ist fast immer harmlos und wohltätig, sie will nichts anderes sein als Illusion. Außer bei wenigen Personen, die, wie man sagt, von der Kunst besessen sind, wagt sie keine Übergriffe ins Reich der Realität. Die Philosophie ist der Wissenschaft nicht gegensätzlich, sie gebärdet sich selbst wie eine Wissenschaft, arbeitet zum Teil mit den gleichen Methoden, entfernt sich aber von ihr, indem sie an der Illusion festhält, ein lückenloses und zusammenhängendes Weltbild liefern zu können, das doch bei jedem neuen Fortschritt unseres Wissens zusammenbrechen muß. Methodisch geht sie darin irre, daß sie den Erkenntniswert unserer logischen Operationen überschätzt und etwa noch andere Wissensquellen wie die Intuition anerkennt. Und oft genug meint man, der Spott des Dichters (H. Heine) sei nicht unberechtigt, wenn er vom Philosophen sagt:

»Mit seinen Nachtmützen und Schlafrockfetzen
Stopft er die Lücken des Weltenbaus.«

Aber die Philosophie hat keinen unmittelbaren Einfluß auf die große Menge von Menschen, sie ist das Interesse einer geringen Anzahl selbst von der dünnen Oberschicht der Intellektuellen, für alle anderen kaum faßbar. Dahingegen ist die Religion eine ungeheure Macht, die über | die stärksten Emotionen der Menschen verfügt. Es ist bekannt, daß sie früher einmal alles umfaßte, was als Geistigkeit im Menschenleben eine Rolle spielt, daß sie die Stelle der Wissenschaft einnahm, als es noch kaum eine Wissenschaft gab, und daß sie eine Weltanschauung von unvergleichlicher Folgerichtigkeit und Geschlossenheit geschaffen hat, die, wiewohl erschüttert, heute noch fortbesteht. [174] Will man sich vom großartigen Wesen der Religion Rechenschaft geben, so muß man sich vorhalten, was sie den Menschen zu leisten unternimmt. Sie gibt ihnen Aufschluß über Herkunft und Entstehung der Welt, sie versichert ihnen Schutz und endliches Glück in den Wechselfällen des Lebens und sie lenkt ihre Gesinnungen und Handlungen durch Vorschriften, die sie mit ihrer ganzen Autorität vertritt. Sie erfüllt also drei Funktionen. In der ersten befriedigt sie die menschliche Wißbegierde, tut dasselbe, was mit ihren Mitteln die Wissenschaft versucht, und tritt hier in Rivalität mit ihr. Ihrer zweiten Funktion verdankt sie wohl den größten Anteil ihres Einflusses. Wenn sie die Angst der Menschen vor den Gefahren und Wechselfällen des Lebens beschwichtigt, sie des guten Ausganges versichert, ihnen Trost im Unglück spendet, kann die Wissenschaft es nicht mit ihr aufnehmen. Diese lehrt zwar, wie man gewisse Gefahren vermeiden, manche Leiden erfolgreich bekämpfen kann; es wäre sehr unrecht zu bestreiten, daß sie den Menschen eine mächtige Helferin ist, aber in vielen Lagen muß sie den Menschen seinem Leid überlassen und weiß ihm nur zur Unterwerfung zu raten. In ihrer dritten Funktion, wenn sie Vorschriften gibt, Verbote und Einschränkungen erläßt, entfernt sie sich von der Wissenschaft am meisten. Denn diese begnügt sich damit, zu untersuchen und festzustellen. Aus ihren Anwendungen leiten sich allerdings Regeln und Ratschläge für das Verhalten im Leben ab. Unter Umständen sind es dieselben, die von der Religion geboten werden, aber dann mit anderer Begründung.

Das Zusammentreffen dieser drei Inhalte der Religion ist nicht ganz durchsichtig. Was soll die Aufklärung über die Entstehung der Welt mit der Einschärfung bestimmter ethischer Vorschriften zu tun haben? Die Zusicherungen von Schutz und Beglückung sind mit den ethischen Anforderungen inniger verknüpft. Sie sind der Lohn für die Erfüllung dieser Gebote; nur wer sich ihnen fügt, darf auf diese Wohltaten rechnen, auf den Ungehorsamen warten Strafen. Übrigens gibt es bei der Wissenschaft etwas Ähnliches. [175] Wer ihre Anwendungen mißachtet, meint sie, setzt sich Schädigungen aus.

Man versteht das merkwürdige Zusammensein von Belehrung, Tröstung und Anforderung in der Religion erst, wenn man diese einer genetischen Analyse unterzieht. Diese darf von dem auffälligsten Punkt des Ensembles, von der Belehrung über die Weltentstehung ausgehen, denn warum sollte eine Kosmogonie ein regelmäßiger Bestandteil des religiösen Systems sein? Die Lehre ist also, daß die Welt von einem menschenähnlichen, aber in allen Stücken, Macht, Weisheit, Stärke der Leidenschaft vergrößerten Wesen, einem idealisierten Übermenschen geschaffen wurde. Tiere als Weltschöpfer weisen auf den Einfluß des Totemismus hin, den wir später wenigstens mit einer Bemerkung streifen werden. Es ist interessant, daß dieser Weltschöpfer immer nur einer ist, auch wo an viele Götter geglaubt wird. Ebenso, daß es zumeist ein Mann ist, obwohl es keineswegs an Andeutungen weiblicher Gottheiten fehlt und manche Mythologien die Weltschöpfung gerade damit beginnen lassen, daß ein Manngott eine weibliche Gottheit, die zum Ungeheuer erniedrigt ist, beseitigt. Die interessantesten Einzelprobleme schließen hier an, aber wir müssen eilen. Der weitere Weg ist uns leicht kenntlich gemacht, indem dieser Gott-Schöpfer direkt Vater geheißen wird. Die Psychoanalyse schließt, es ist wirklich der Vater, so großartig, wie er einmal dem kleinen Kind erschienen war. Der religiöse Mensch stellt sich die Schöpfung der Welt so vor wie seine eigene Entstehung.

Dann erklärt sich leicht, wie die tröstlichen Versicherungen und die strengen ethischen Forderungen mit der Kosmogonie zusammenkommen. Denn dieselbe Person, der das Kind seine Existenz verdankt, der Vater (richtiger wohl, die aus Vater und Mutter zusammengesetzte Elterninstanz) hat auch das schwache, hilflose, allen in der Außenwelt lauernden Gefahren ausgesetzte Kind beschützt und bewacht; in seiner Obhut hat es sich sicher gefühlt. Selbst erwachsen geworden, weiß sich der Mensch zwar im Besitz größerer [176] Kräfte, aber auch seine Einsicht in die Gefahren des Lebens hat zugenommen, und er schließt mit Recht, daß er im Grunde noch ebenso hilflos und ungeschützt geblieben ist wie in der Kindheit, daß er der Welt gegenüber noch immer Kind ist. Er mag also auch jetzt nicht auf den Schutz verzichten, den er als Kind genossen hat. Längst hat er aber auch erkannt, daß sein Vater ein in seiner Macht eng beschränktes, nicht mit allen Vorzügen ausgestattetes Wesen ist. Darum greift er auf das Erinnerungsbild des von | ihm so überschätzten Vaters der Kinderzeit zurück, erhebt es zur Gottheit und rückt es in die Gegenwart und in die Realität. Die affektive Stärke dieses Erinnerungsbildes und die Fortdauer seiner Schutzbedürftigkeit tragen miteinander seinen Glauben an Gott.

Auch der dritte Hauptpunkt des religiösen Programms, die ethische Forderung, fügt sich ungezwungen in diese Kindheitssituation ein. Ich erinnere Sie an den berühmten Ausspruch Kant’s, der den gestirnten Himmel und das Sittengesetz in unserer Brust in einem Atem nennt. So befremdend diese Zusammenstellung klingt, – denn was mögen die Himmelskörper mit der Frage zu tun haben, ob ein Menschenkind ein anderes liebt oder totschlägt? – so streift sie doch an eine große psychologische Wahrheit. Derselbe Vater (die Elterninstanz), der dem Kind das Leben gegeben und es vor den Gefahren desselben behütet hat, belehrte es auch, was es tun darf und was es unterlassen soll, wies es an, sich bestimmte Einschränkungen seiner Triebwünsche gefallen zu lassen, ließ es wissen, welche Rücksichten auf Eltern und Geschwister von ihm erwartet werden, wenn es ein geduldetes und gern gesehenes Mitglied des Familienkreises und später größerer Verbände werden will. Durch ein System von Liebesprämien und Strafen wird das Kind zur Kenntnis seiner sozialen Pflichten erzogen, wird es belehrt, daß seine Lebenssicherheit davon abhängt, daß die Eltern und dann auch die Anderen es lieben und an seine Liebe zu ihnen glauben können. Alle diese Verhältnisse trägt dann der Mensch unverändert in die Religion [177] ein. Die Verbote und Forderungen der Eltern leben als sittliches Gewissen in seiner Brust weiter; mit Hilfe desselben Systems von Lohn und Strafe regiert Gott die Menschenwelt, von der Erfüllung der ethischen Forderungen hängt es ab, welches Maß von Schutz und Glücksbefriedigung dem Einzelnen zugewiesen wird; in der Liebe zu Gott und im Bewußtsein, von ihm geliebt zu werden, ist die Sicherheit begründet, mit der man sich gegen die Gefahren der Außenwelt wie der menschlichen Mitwelt wappnet. Endlich hat man sich im Gebet einen direkten Einfluß auf den göttlichen Willen und damit einen Anteil an der göttlichen Allmacht gesichert.

Ich weiß, während Sie mir zuhörten, haben sich Ihnen zahlreiche Fragestellungen aufgedrängt, auf die Sie gerne die Antwort hören möchten. Ich kann es hier und heute nicht unternehmen, aber ich bin zuversichtlich, daß keine dieser Detailuntersuchungen unseren Satz erschüttern würde, die religiöse Weltanschauung sei durch die Situation unserer | Kindheit determiniert. Umso merkwürdiger dann, daß sie trotz ihres infantilen Charakters doch einen Vorläufer hat. Es gab ohne Zweifel eine Zeit ohne Religion, ohne Götter. Man heißt sie den Animismus. Die Welt war auch damals voll von menschenähnlichen geistigen Wesen, Dämonen nennen wir sie, alle Objekte der Außenwelt waren der Sitz von ihnen oder vielleicht identisch mit ihnen, aber es gab keine Übermacht, die sie alle erschaffen hatte und auch weiter beherrschte und an die man sich um Schutz und Abhilfe wenden konnte. Die Dämonen des Animismus waren den Menschen zumeist feindlich gesinnt, aber es scheint, daß der Mensch sich damals mehr zutraute als später. Er litt gewiß beständig unter schwerster Angst vor diesen bösen Geistern, aber er erwehrte sich ihrer durch bestimmte Handlungen, denen er die Kraft zuschrieb, sie zu verjagen. Auch hielt er sich sonst nicht für machtlos. Wenn er an die Natur einen Wunsch zu stellen hatte, z.B. Regen wollte, so richtete er nicht ein Gebet an den Wettergott, sondern er übte einen Zauber, von dem er [178] eine direkte Beeinflussung der Natur erwartete, machte selbst etwas dem Regen ähnliches. Im Kampf gegen die Mächte der Umwelt war seine erste Waffe die Magie, die erste Vorläuferin unserer heutigen Technik. Wir nehmen an, daß das Vertrauen in die Magie sich von der Überschätzung der eigenen intellektuellen Operationen ableitet, von dem Glauben an die »Allmacht der Gedanken«, den wir übrigens bei unseren Zwangsneurotikern wiederfinden. Wir könnten uns vorstellen, daß die Menschen jener Zeit besonders stolz auf ihre Erwerbungen in der Sprache waren, mit denen eine große Erleichterung des Denkens einhergehen mußte. Sie verliehen dem Wort Zauberkraft. Dieser Zug wurde später von der Religion übernommen. »Und Gott sprach: es werde Licht, und es ward Licht.« Übrigens zeigt die Tatsache der magischen Handlungen, daß der animistische Mensch sich nicht einfach auf die Kraft seiner Wünsche verließ. Er erwartete den Erfolg vielmehr von der Ausführung eines Aktes, der die Natur zur Nachahmung veranlassen sollte. Wenn er Regen wollte, schüttete er selbst Wasser aus; wenn er den Boden zur Fruchtbarkeit anregen wollte, gab er ihm das Schauspiel eines Geschlechtsverkehrs auf dem Felde.

Sie wissen, wie schwer etwas untergeht, was sich einmal psychischen Ausdruck verschafft hat. Sie werden also nicht überrascht sein zu hören, daß viele Äußerungen des Animismus sich bis auf den heutigen Tag erhalten haben, meist als sogenannter Aberglaube, neben und hinter der Religion. Aber mehr noch, Sie werden das Urteil kaum abweisen können, daß unsere Philosophie wesentliche Züge der animistischen Denkweise bewahrt hat, die Überschätzung des Wortzaubers, den Glauben, daß die realen Vorgänge in der Welt die Wege gehen, die unser Denken ihnen anweisen will. Es wäre freilich ein Animismus ohne magische Handlungen. Anderseits dürfen wir erwarten, daß es schon in jenem Zeitalter irgendeine Art von Ethik gegeben hat, Vorschriften für den Verkehr der Menschen untereinander, aber nichts spricht dafür, daß sie inniger an den animistischen Glauben geknüpft waren. Wahrscheinlich [179] waren sie der unmittelbare Ausdruck der Machtverhältnisse und praktischen Bedürfnisse.

Was den Übergang vom Animismus zur Religion erzwungen hat, wäre sehr wissenswert, aber Sie können sich vorstellen, welches Dunkel heute noch diese Urzeiten der Entwicklungsgeschichte des Menschengeistes verhüllt. Es scheint Tatsache, daß die erste Erscheinungsform der Religion der merkwürdige Totemismus war, die Tierverehrung, in dessen Gefolge auch die ersten ethischen Gebote, die Tabus, auftraten. Ich habe seinerzeit in einem Buche »Totem und Tabu« eine Vermutung ausgearbeitet, die diese Wandlung auf einen Umsturz in den Verhältnissen der menschlichen Familie zurückführt. Die Hauptleistung der Religion im Vergleich zum Animismus liegt in der psychischen Bindung der Dämonenangst. Doch hat sich als Überlebsel der Vorzeit der böse Geist eine Stelle im System der Religion gewahrt.

Ist dies die Vorgeschichte der religiösen Weltanschauung, so wenden wir uns jetzt zu dem, was seither geschehen und noch unter unseren Augen vor sich geht. Der wissenschaftliche Geist, an der Beobachtung der Naturvorgänge erstarkt, hat im Laufe der Zeiten begonnen, die Religion wie eine menschliche Angelegenheit zu behandeln und sie einer kritischen Prüfung zu unterziehen. Der konnte sie nicht standhalten. Es waren zunächst ihre Wunderberichte, die Befremden und Unglauben hervorriefen, weil sie allem widersprachen, was die nüchterne Beobachtung gelehrt hatte, und überdeutlich den Einfluß menschlicher Phantasietätigkeit verrieten. Dann mußten ihre Lehren zur Erklärung der bestehenden Welt Ablehnung finden, denn sie zeugten von einer Unwissenheit, die den Stempel alter Zeiten an sich trug und der man sich dank gesteigerter Vertrautheit mit den Naturgesetzen überlegen wußte. Daß die Welt durch Zeugungs- oder Schöpfungsakte entstanden sein sollte, analog der Entstehung des einzelnen Menschen, erschien nicht mehr als | die nächste, selbstverständliche Annahme, seitdem sich dem Denken die Unterscheidung von belebten und seelenvollen Wesen [180] und einer unbelebten Natur aufgedrängt hatte, mit der das Festhalten am ursprünglichen Animismus unmöglich wurde. Nicht zu übersehen ist auch der Einfluß des vergleichenden Studiums verschiedener religiöser Systeme und der Eindruck ihrer gegenseitigen Ausschließung und ihrer Intoleranz gegen einander.

An diesen Vorübungen erstarkt, hat der wissenschaftliche Geist endlich den Mut gewonnen, sich an die Prüfung der bedeutsamsten und affektiv wertvollsten Stücke der religiösen Weltanschauung zu wagen. Man hätte es immer sehen können, aber man getraute sich erst spät es auszusprechen, daß auch die Behauptungen der Religion, die dem Menschen Schutz und Glück versprechen, wenn er nur gewisse ethische Anforderungen erfüllt, sich als unglaubwürdig erweisen. Es scheint nicht zuzutreffen, daß es eine Macht im Weltall gibt, die mit elterlicher Sorgfalt über das Wohlergehen des Einzelnen wacht und alles, was ihn betrifft, zu glücklichem Ende leitet. Vielmehr sind die Schicksale der Menschen weder mit der Annahme der Weltgüte noch mit der – ihr zum Teil widersprechenden – einer Weltgerechtigkeit zu vereinen. Erdbeben, Sturmfluten, Feuersbrünste machen keinen Unterschied zwischen dem Guten und Frommen und dem Bösewicht oder dem Ungläubigen. Auch wo nicht die unbelebte Natur in Betracht kommt und insoferne das Schicksal des einzelnen Menschen von seinen Beziehungen zu den anderen Menschen abhängt, ist es keineswegs die Regel, daß die Tugend belohnt wird und das Böse seine Strafe findet, sondern oft genug reißt der Gewalttätige, Schlaue, Rücksichtslose die beneideten Güter der Welt an sich und der Fromme geht leer aus. Dunkle, fühllose und lieblose Mächte bestimmen das menschliche Schicksal; das System von Belohnungen und Strafen, dem die Religion die Weltherrschaft zugeschrieben hat, scheint nicht zu existieren. Hier ist wiederum ein Anlaß, ein Stück der Beseelung, das sich aus dem Animismus in die Religion gerettet hatte, fallen zu lassen.

Den letzten Beitrag zur Kritik der religiösen Weltanschauung [181] hat die Psychoanalyse geleistet, indem sie auf den Ursprung der Religion aus der kindlichen Hilflosigkeit hinwies und ihre Inhalte aus den ins reife Leben fortgesetzten Wünschen und Bedürfnissen der Kinderzeit ableitete. Das bedeutete nicht gerade eine Widerlegung der Religion, aber es war doch eine notwendige Abrundung unseres Wissens um sie und wenigstens in einem Punkt ein Widerspruch, da sie selbst göttliche Abkunft für sich in Anspruch nimmt. Freilich hat sie damit nicht unrecht, wenn man unsere Deutung Gottes annimmt.

Das zusammenfassende Urteil der Wissenschaft über die religiöse Weltanschauung lautet also: Während die einzelnen Religionen miteinander hadern, welche von ihnen im Besitz der Wahrheit sei, meinen wir, daß der Wahrheitsgehalt der Religion überhaupt vernachlässigt werden darf. Religion ist ein Versuch, die Sinneswelt, in die wir gestellt sind, mittels der Wunschwelt zu bewältigen, die wir infolge biologischer und psychologischer Notwendigkeiten in uns entwickelt haben. Aber sie kann es nicht leisten. Ihre Lehren tragen das Gepräge der Zeiten, in denen sie entstanden sind, der unwissenden Kinderzeiten der Menschheit. Ihre Tröstungen verdienen kein Vertrauen. Die Erfahrung lehrt uns: Die Welt ist keine Kinderstube. Die ethischen Forderungen, denen die Religion Nachdruck verleihen will, verlangen vielmehr eine andere Begründung, denn sie sind der menschlichen Gesellschaft unentbehrlich und es ist gefährlich, ihre Befolgung an die religiöse Gläubigkeit zu knüpfen. Versucht man, die Religion in den Entwicklungsgang der Menschheit einzureihen, so erscheint sie nicht als ein Dauererwerb, sondern als ein Gegenstück der Neurose, die der einzelne Kulturmensch auf seinem Wege von der Kindheit zur Reife durchzumachen hat.

Es steht Ihnen natürlich frei, an dieser meiner Darstellung Kritik zu üben; ich werde Ihnen dabei selbst entgegenkommen. Was ich Ihnen über die allmähliche Abbröckelung der religiösen Weltanschauung gesagt habe, war gewiß in seiner Verkürzung unvollständig; die Reihenfolge der einzelnen Vorgänge war nicht ganz [182] richtig angegeben, das Zusammenwirken verschiedener Kräfte beim Erwachen des wissenschaftlichen Geistes wurde nicht verfolgt. Ich habe auch die Veränderungen außeracht gelassen, die sich in der religiösen Weltanschauung selbst während der Zeit ihrer unbestrittenen Herrschaft und dann unter dem Einfluß der erwachenden Kritik vollzogen haben. Endlich habe ich meine Erörterung streng genommen auf eine einzige Gestaltung der Religion, die der abendländischen Völker, eingeschränkt. Ich habe mir sozusagen ein Phantom geschaffen zum Zweck einer beschleunigten, | möglichst eindrucksvollen Demonstration. Lassen wir die Frage beiseite, ob mein Wissen überhaupt hingereicht hätte, es besser und vollständiger zu machen. Ich weiß, alles, was ich Ihnen gesagt habe, können Sie anderswo finden, besser finden, nichts davon ist neu. Lassen Sie mich die Überzeugung aussprechen, daß die sorgfältigste Bearbeitung des Stoffs der Religionsprobleme unser Ergebnis nicht erschüttern würde.

Sie wissen, daß der Kampf des wissenschaftlichen Geistes gegen die religiöse Weltanschauung nicht zu Ende gekommen ist, er spielt sich noch in der Gegenwart unter unseren Augen ab. So wenig sonst die Psychoanalyse von der Waffe der Polemik Gebrauch macht, so wollen wir es uns doch nicht versagen, in diesen Streit Einsicht zu nehmen. Wir erreichen dabei vielleicht eine weitere Klärung unserer Stellung zu den Weltanschauungen. Sie werden sehen, wie leicht sich einige der Argumente, die die Anhänger der Religion vorbringen, zurückweisen lassen: andere mögen sich allerdings der Widerlegung entziehen.

Die erste Einwendung, die man hört, lautet, es sei eine Vermessenheit der Wissenschaft, die Religion zum Gegenstand ihrer Untersuchungen zu nehmen, denn diese sei etwas Souveränes, jeder menschlichen Verstandestätigkeit Überlegenes, dem man mit klügelnder Kritik nicht nahekommen darf. Mit anderen Worten, die Wissenschaft ist zur Beurteilung der Religion nicht zuständig. Sie sei sonst ganz brauchbar und schätzenswert, solange sie sich auf [183] ihr Gebiet beschränkt, aber die Religion sei nicht ihr Gebiet, da habe sie nichts zu suchen. Läßt man sich durch diese barsche Abweisung nicht abhalten und fragt weiter, worauf sich dieser Anspruch auf eine Ausnahmsstellung unter allen menschlichen Angelegenheiten gründet, so erhält man zur Antwort, wenn man überhaupt einer Antwort gewürdigt wird, die Religion darf nicht mit menschlichem Maß gemessen werden, denn sie ist göttlicher Herkunft, uns durch Offenbarung von einem Geist gegeben, den der Menschengeist nicht zu begreifen vermag. Man sollte meinen, nichts sei leichter abzuweisen als dieses Argument, es ist doch eine offenkundige petitio principii, ein begging the question, ich weiß keinen guten Ausdruck dafür im Deutschen. Es wird eben in Frage gestellt, ob es einen göttlichen Geist und seine Offenbarung gibt, und da ist es sicherlich keine Entscheidung, wenn gesagt wird, das könne man nicht fragen, denn die Gottheit darf nicht in Frage gestellt werden. Es ist hier wie gelegentlich in der analytischen Arbeit. Wenn ein sonst verständiger Patient eine bestimmte Zumutung mit einer besonders dummen Begründung zurückweist, so | verbürgt diese logische Schwäche die Existenz eines besonders starken Motivs zum Widerspruch, das nur affektiver Natur, eine Gefühlsbindung sein kann.

Man kann auch eine andere Antwort erhalten, in der ein solches Motiv offen eingestanden wird. Die Religion darf nicht kritisch geprüft werden, weil sie das Höchste, Wertvollste, Erhabenste ist, was der menschliche Geist hervorgebracht hat, weil sie den tiefsten Gefühlen Ausdruck gibt, allein die Welt erträglich und das Leben menschenwürdig macht. Darauf braucht man nicht zu antworten, indem man die Einschätzung der Religion bestreitet, sondern indem man die Aufmerksamkeit auf einen anderen Sachverhalt richtet. Man betont, daß es sich gar nicht um einen Übergriff des wissenschaftlichen Geistes auf das Gebiet der Religion handelt, sondern im Gegenteil um einen Übergriff der Religion auf die Sphäre des wissenschaftlichen Denkens. Was immer Wert und Bedeutung der [184] Religion sein mögen, sie hat kein Recht, das Denken irgendwie zu beschränken, also auch nicht das Recht, sich selbst von der Anwendung des Denkens auszunehmen.

Das wissenschaftliche Denken ist in seinem Wesen nicht verschieden von der normalen Denktätigkeit, die wir alle, Gläubige wie Ungläubige, bei der Besorgung unserer Angelegenheiten im Leben verwenden. Es hat sich nur in einigen Zügen besonders gestaltet, es interessiert sich auch für Dinge, die keinen unmittelbaren, greifbaren Nutzen haben, es bemüht sich, individuelle Faktoren und affektive Beeinflussungen sorgfältig fernzuhalten, prüft die Sinneswahrnehmungen, auf die es seine Schlüsse baut, strenger auf ihre Zuverlässigkeit, schafft sich neue Wahrnehmungen, die mit den Mitteln des Alltags nicht zu erreichen sind, und isoliert die Bedingungen dieser Neuerfahrungen in absichtlich variierten Versuchen. Sein Bestreben ist, die Übereinstimmung mit der Realität zu erreichen, d.h. mit dem, was außerhalb von uns, unabhängig von uns besteht und, wie uns die Erfahrung gelehrt hat, für die Erfüllung oder Vereitelung unserer Wünsche maßgebend ist. Diese Übereinstimmung mit der realen Außenwelt heißen wir Wahrheit. Sie bleibt das Ziel der wissenschaftlichen Arbeit, auch wenn wir deren praktischen Wert außer Augen lassen. Wenn also die Religion behauptet, daß sie die Wissenschaft ersetzen kann, daß sie darum, weil sie wohltuend und erhebend ist, auch wahr sein muß, so ist das in der Tat ein Übergriff, den man im allgemeinsten Interesse zurückweisen sollte. Es ist eine starke Zumutung an den Menschen, der gelernt hat, seine gewöhnlichen Geschäfte nach den Regeln der Erfahrung und unter Rücksicht auf die | Realität zu führen, daß er die Besorgung gerade seiner intimsten Interessen einer Instanz übertragen sollte, die die Befreiung von den Vorschriften des rationellen Denkens als ihr Vorrecht in Anspruch nimmt. Und was den Schutz betrifft, den die Religion ihren Gläubigen verspricht, so meine ich, niemand von uns würde auch nur in ein Automobil einsteigen wollen, dessen Lenker erklärt, er fahre unbeirrt durch [185] die Regeln des Straßenverkehrs nach den Impulsen seiner von hohem Schwung getragenen Phantasie.

Das Denkverbot, das die Religion im Dienste ihrer Selbsterhaltung ausgehen läßt, ist auch keineswegs ungefährlich, weder für den Einzelnen noch für die menschliche Gemeinschaft. Die analytische Erfahrung hat uns gelehrt, daß ein solches Verbot, wenn auch ursprünglich auf ein bestimmtes Gebiet beschränkt, die Neigung hat sich auszubreiten und dann eine Ursache schwerer Hemmungen in der Lebenshaltung der Person wird. Diese Wirkung kann man auch am weiblichen Geschlecht beobachten als Folge des Verbots, sich auch nur im Denken mit seiner Sexualität zu beschäftigen. Die Schädlichkeit der religiösen Denkhemmung vermag die Biographik in der Lebensgeschichte fast aller hervorragenden Individuen vergangener Zeiten nachzuweisen. Anderseits gehört der Intellekt – oder nennen wir ihn bei seinem uns vertrauten Namen: die Vernunft – zu den Mächten, von denen man am ehesten einen einigenden Einfluß auf die Menschen erwarten darf, die Menschen, die so schwer zusammenzuhalten und darum kaum zu regieren sind. Man stelle sich vor, wie unmöglich die menschliche Gesellschaft würde, wenn jedermann auch nur sein eigenes Einmaleins und seine besondere Längen- und Gewichtseinheit hätte. Es ist unsere beste Zukunftshoffnung, daß der Intellekt – der wissenschaftliche Geist, die Vernunft – mit der Zeit die Diktatur im menschlichen Seelenleben erringen wird. Das Wesen der Vernunft bürgt dafür, daß sie dann nicht unterlassen wird, den menschlichen Gefühlsregungen und was von ihnen bestimmt wird, die ihnen gebührende Stellung einzuräumen. Aber der gemeinsame Zwang einer solchen Herrschaft der Vernunft wird sich als das stärkste einigende Band unter den Menschen erweisen und weitere Einigungen anbahnen. Was sich, wie das Denkverbot der Religion, einer solchen Entwicklung widersetzt, ist eine Gefahr für die Zukunft der Menschheit.

Man kann nun fragen: Warum macht die Religion diesem für [186] sie aussichtslosen Streit nicht ein Ende, indem sie frei heraus erklärt: »Es ist richtig, daß ich Euch das nicht geben kann, was man gemeinhin Wahrheit nennt; dafür müßt Ihr Euch an die Wissenschaft halten. Aber was ich zu geben habe, ist ungleich schöner, trostreicher und erhebender als alles, was Ihr von der Wissenschaft bekommen könnt. Und darum sage ich Euch, es ist wahr in einem anderen, höheren Sinn.« Die Antwort ist leicht zu finden. Die Religion kann dieses Zugeständnis nicht machen, weil sie damit jeden Einfluß auf die Menge einbüßen würde. Der gemeine Mann kennt nur eine Wahrheit im gemeinen Sinn des Wortes. Was eine höhere oder höchste Wahrheit sein soll, kann er sich nicht vorstellen. Die Wahrheit erscheint ihm so wenig der Steigerung fähig wie der Tod, und den Sprung vom Schönen zum Wahren kann er nicht mitmachen. Vielleicht denken Sie mit mir, er tut recht daran.

Der Kampf ist also nicht zu Ende. Die Anhänger der religiösen Weltanschauung handeln nach dem alten Satz: Die beste Verteidigung ist der Angriff. Sie fragen: Wer ist denn diese Wissenschaft, die sich anmaßt unsere Religion zu entwerten, die Millionen von Menschen durch lange Jahrtausende Heil und Trost gespendet hat? Was hat sie ihrerseits bereits geleistet? Was können wir ferner von ihr erwarten? Trost und Erhebung zu bringen, dazu ist sie nach eigenem Geständnis unfähig. Sehen wir also davon ab, obwohl das kein leichter Verzicht ist. Aber was ist’s mit ihren Lehren? Kann sie uns sagen, wie die Welt geworden ist und welchem Schicksal sie entgegengeht? Kann sie uns auch nur ein zusammenhängendes Weltbild zeichnen, uns zeigen, wohin die unerklärten Phänomene des Lebens gehören, wie die geistigen Kräfte auf die träge Materie zu wirken vermögen? Wenn sie das könnte, würden wir ihr unsere Achtung nicht versagen. Aber nichts von alledem, kein Problem dieser Art hat sie noch gelöst. Sie gibt uns Bruchstücke angeblicher Erkenntnis, die sie nicht zur Übereinstimmung miteinander bringen kann, sammelt Beobachtungen [187] von Regelmäßigkeiten im Ablauf der Geschehnisse, die sie mit dem Namen von Gesetzen auszeichnet und ihren gewagten Deutungen unterwirft. Und mit welch geringem Grad von Sicherheit stattet sie ihre Ergebnisse aus! Alles, was sie lehrt, gilt nur vorläufig; was man heute als höchste Weisheit anpreist, wird morgen verworfen und wiederum nur probeweise durch anderes ersetzt. Der letzte Irrtum heißt dann Wahrheit. Und dieser Wahrheit sollen wir unser höchstes Gut zum Opfer bringen!

Meine Damen und Herren! Ich denke, insofern Sie selbst der hier angegriffenen wissenschaftlichen Weltanschauung anhängen, werden Sie durch diese Kritik nicht allzutief erschüttert worden sein. Im kaiserlichen Österreich fiel einst ein Wort, an das ich hier erinnern möchte. | Der alte Herr schrie einmal die Abordnung einer ihm unbequemen Partei an: Das ist keine gewöhnliche Opposition mehr, das ist faktiöse Opposition. So ähnlich werden Sie finden, die Vorwürfe gegen die Wissenschaft, daß sie die Welträtsel noch nicht gelöst, sind in ungerechter und gehässiger Weise übertrieben; für diese großen Leistungen hat sie bisher wirklich zu wenig Zeit gehabt. Die Wissenschaft ist sehr jung, eine spät entwickelte menschliche Tätigkeit. Halten wir uns vor, um nur einige Daten auszuwählen, es sind etwa 300 Jahre vergangen, seit Kepler die Gesetze der Planetenbewegung fand, die Lebenszeit Newtons, der das Licht in seine Farben zerlegte und die Lehre von der Schwerkraft aufstellte, ging 1727 zu Ende, also vor wenig mehr als 200 Jahren, kurz vor der französischen Revolution erkannte Lavoisier den Sauerstoff. Ein Menschendasein ist sehr kurz im Vergleich zur Dauer der Menschheitsentwicklung, ich mag heute ein sehr alter Mann sein, aber immerhin, ich war schon am Leben, als Ch. Darwin sein Werk über die Entstehung der Arten der Öffentlichkeit übergab. In dem gleichen Jahr 1859 wurde der Entdecker des Radiums, Pierre Curie, geboren. Und wenn Sie weiter zurückgehen, zu den Anfängen der exakten Naturwissenschaft bei den Griechen, zu Archimedes, Aristarch von Samos (um 250 [188] v. Chr.), dem Vorläufer des Kopernikus, oder selbst zu den ersten Ansätzen der Astronomie bei den Babyloniern, so decken Sie damit nur einen kleinen Bruchteil des Zeitraums, den die Anthropologie für die Entwicklung des Menschen von seiner affenähnlichen Urform aus in Anspruch nimmt, und der gewiß mehr als ein Jahrhunderttausend umfaßt. Und vergessen wir nicht, das letzte Jahrhundert hat eine solche Fülle von neuen Entdeckungen, eine so große Beschleunigung des wissenschaftlichen Fortschritts gebracht, daß wir allen Grund haben, der Zukunft der Wissenschaft mit Zuversicht entgegenzusehen.

Den anderen Ausstellungen müssen wir in gewissem Umfang recht geben. So ist eben der Weg der Wissenschaft, langsam, tastend, mühselig. Es ist nicht zu leugnen und zu ändern. Kein Wunder, daß die Herren von der anderen Seite unzufrieden sind; sie sind verwöhnt, bei der Offenbarung haben sie es leichter gehabt. Der Fortschritt in der wissenschaftlichen Arbeit vollzieht sich ganz ähnlich wie in einer Analyse. Man bringt Erwartungen in die Arbeit mit, aber man muß sie zurückdrängen. Man erfährt durch die Beobachtung bald hier, bald dort etwas | Neues, die Stücke passen zunächst nicht zusammen. Man stellt Vermutungen auf, macht Hilfskonstruktionen, die man zurücknimmt, wenn sie sich nicht bestätigen, man braucht viel Geduld, Bereitschaft für alle Möglichkeiten, verzichtet auf frühe Überzeugungen, um nicht unter deren Zwang neue, unerwartete Momente zu übersehen, und am Ende lohnt sich der ganze Aufwand, die zerstreuten Funde fügen sich zusammen, man gewinnt den Einblick in ein ganzes Stück des seelischen Geschehens, hat die Aufgabe erledigt und ist nun frei für die nächste. Nur die Hilfe, die das Experiment der Forschung leistet, muß man in der Analyse entbehren.

An jener Kritik der Wissenschaft ist auch ein gutes Stück Übertreibung. Es ist nicht wahr, daß sie blind von einem Versuch zum andern torkelt, einen Irrtum mit einem anderen vertauscht. In der Regel arbeitet sie wie der Künstler am Tonmodell, wenn [189] er am rohen Entwurf unermüdlich ändert, aufträgt und wegnimmt, bis er einen ihn befriedigenden Grad von Ähnlichkeit mit dem gesehenen oder vorgestellten Objekt erreicht hat. Auch gibt es, wenigstens in den älteren und reiferen Wissenschaften, schon heute einen soliden Grundstock, der nur modifiziert und ausgebaut, aber nicht mehr abgetragen wird. Es sieht nicht so arg aus im wissenschaftlichen Betrieb.

Und endlich, was wollen diese leidenschaftlichen Verunglimpfungen der Wissenschaft bezwecken? Trotz ihrer heutigen Unvollkommenheit und der ihr anhaftenden Schwierigkeiten bleibt sie uns unentbehrlich und ist durch nichts anderes zu ersetzen. Sie ist ungeahnter Vervollkommnungen fähig, die religiöse Weltanschauung ist es nicht. Diese ist in allen wesentlichen Stücken fertig; wenn sie ein Irrtum war, muß sie es für immer bleiben. Keine Verkleinerung der Wissenschaft kann auch etwas an der Tatsache ändern, daß sie versucht, unserer Abhängigkeit von der realen Außenwelt gerecht zu werden, während die Religion Illusion ist und ihre Stärke aus dem Entgegenkommen gegen unsere Triebwunschregungen bezieht.

Ich habe die Verpflichtung, noch anderer Weltanschauungen zu gedenken, die sich im Gegensatz zur wissenschaftlichen befinden; ich tue es aber ungern, da ich weiß, daß mir die richtige Kompetenz zu deren Beurteilung abgeht. Nehmen Sie also die folgenden Bemerkungen unter | dem Eindruck dieses Bekenntnisses auf, und wenn Ihr Interesse geweckt worden ist, suchen Sie bessere Belehrung von anderer Seite.

An erster Stelle wären hier die verschiedenen philosophischen Systeme zu nennen, die es gewagt haben, das Bild der Welt zu zeichnen, wie es sich im Geist des meist weltabgewandten Denkers spiegelte. Aber eine allgemeine Charakteristik der Philosophie und ihrer Methoden zu geben, habe ich bereits versucht und zur Würdigung der einzelnen Systeme bin ich wohl so ungeeignet wie selten jemand. Wenden Sie sich also mit mir zu zwei anderen Erscheinungen, [190] an denen man gerade in unserer Zeit nicht vorbeigehen kann.

Die eine dieser Weltanschauungen ist gleichsam ein Gegenstück zum politischen Anarchismus, vielleicht eine Ausstrahlung von ihm. Es hat solche intellektuelle Nihilisten gewiß schon früher gegeben, aber gegenwärtig scheint ihnen die Relativitätstheorie der modernen Physik zu Kopf gestiegen zu sein. Sie gehen zwar von der Wissenschaft aus, aber sie verstehen es, sie zur Selbstaufhebung, zum Selbstmord zu drängen, tragen ihr die Aufgabe auf, sich selbst durch Widerlegung ihrer Ansprüche aus dem Weg zu räumen. Oft gewinnt man dabei den Eindruck, dieser Nihilismus sei nur eine zeitweilige Einstellung, die bis zur Erledigung jener Aufgabe festgehalten wird. Hat man die Wissenschaft beseitigt, so mag auf dem freigewordenen Raum sich irgend ein Mystizismus oder doch wieder die alte religiöse Weltanschauung ausbreiten. Nach der anarchistischen Lehre gibt es überhaupt keine Wahrheit, keine gesicherte Erkenntnis der Außenwelt. Was wir für wissenschaftliche Wahrheit ausgeben, ist doch nur das Produkt unserer eigenen Bedürfnisse, wie sie sich unter den wechselnden äußeren Bedingungen äußern müssen, also wiederum Illusion. Im Grunde finden wir doch nur, was wir brauchen, sehen nur, was wir sehen wollen. Wir können nicht anders. Da das Kriterium der Wahrheit, die Übereinstimmung mit der Außenwelt, entfällt, ist es recht gleichgültig, welchen Meinungen wir anhängen. Alle sind gleich wahr und gleich falsch. Und niemand hat das Recht, den Andern des Irrtums zu zeihen.

Für einen erkenntnistheoretisch gerichteten Geist könnte es eine Verlockung sein nachzuspüren, auf welchen Wegen, durch welche Sophismen es den Anarchisten gelingt, der Wissenschaft solche Endergebnisse abzulocken. Man müßte da auf Situationen stoßen, ähnlich wie sie sich aus dem bekannten Beispiel ableiten: Ein Kreter sagt: Alle Kreter sind Lügner, usw. Aber mir fehlen Lust und Fähigkeit, mich da tiefer einzulassen. Ich kann nur [191] sagen, die anarchistische Lehre klingt so großartig überlegen, solange sie sich auf Meinungen über abstrakte Dinge bezieht; sie versagt beim ersten Schritt ins praktische Leben. Nun werden die Handlungen der Menschen von ihren Meinungen, Kenntnissen, geleitet, und es ist derselbe wissenschaftliche Geist, der über den Bau der Atome oder die Abstammung des Menschen spekuliert und der die Konstruktion einer tragfähigen Brücke entwirft. Wäre es wirklich gleichgültig, was wir meinen, gäbe es keine Kenntnisse, die unter unseren Meinungen durch ihre Übereinstimmung mit der Wirklichkeit ausgezeichnet sind, so dürften wir Brücken ebensowohl aus Pappe bauen wie aus Stein, dem Kranken ein Dezigramm Morphin einspritzen anstatt eines Zentigramms, Tränengas zur Narkose nehmen an Stelle von Äther. Aber auch die intellektuellen Anarchisten würden solche praktische Anwendungen ihrer Theorie energisch ablehnen.

Die andere Gegnerschaft ist weit ernster zu nehmen, auch bedaure ich in diesem Fall am lebhaftesten die Unzulänglichkeit meiner Orientierung. Ich vermute, Sie wissen von dieser Sache mehr als ich und Sie haben längst Stellung für oder gegen den Marxismus genommen. Die Untersuchungen von K. Marx über die ökonomische Struktur der Gesellschaft und den Einfluß der verschiedenen Wirtschaftsformen auf alle Gebiete des Menschenlebens haben in unserer Zeit eine unbestreitbare Autorität gewonnen. Inwieweit sie im einzelnen das Richtige treffen oder irregehen, kann ich natürlich nicht wissen. Ich höre, daß es auch anderen, besser Unterrichteten nicht leicht wird. In der Marxschen Theorie haben mich Sätze befremdet wie, daß die Entwicklung der Gesellschaftsformen ein naturgeschichtlicher Prozeß sei, oder daß die Wandlungen in der sozialen Schichtung auf dem Weg eines dialektischen Prozesses auseinander hervorgehen. Ich bin gar nicht sicher, daß ich diese Behauptungen richtig verstehe, sie klingen auch nicht »materialistisch«, sondern eher wie ein Niederschlag jener dunkeln Hegelschen Philosophie, durch deren Schule auch [192] Marx gegangen ist. Ich weiß nicht, wie ich von meiner Laienmeinung frei werden kann, die gewohnt ist, die Klassenbildung in der Gesellschaft auf die Kämpfe zurückzuführen, die sich seit dem Beginn der Geschichte zwischen den um ein Geringes verschiedenen Menschenhorden abspielten. Die sozialen Unterschiede, meinte ich, waren ursprünglich Stammes- oder Rassenunterschiede. Psychologische Faktoren, wie das Ausmaß der konstitutionellen Aggressionslust, aber auch die Festigkeit der Organisation innerhalb der Horde, und materielle, wie der Besitz der besseren Waffen, entschieden den Sieg. Im Zusammenleben auf demselben Boden wurden die Sieger die Herren, die Besiegten die Sklaven. Dabei ist nichts von Naturgesetz oder Begriffswandlung zu entdecken, hingegen ist der Einfluß unverkennbar, den die fortschreitende Beherrschung der Naturkräfte auf die sozialen Beziehungen der Menschen übt, indem sie die neugewonnenen Machtmittel immer auch in den Dienst ihrer Aggression stellen und gegeneinander verwenden. Die Einführung des Metalls, der Bronze, des Eisens hat ganzen Kulturepochen und ihren sozialen Institutionen ein Ende gemacht. Ich glaube wirklich, daß das Schießpulver, die Feuerwaffe Rittertum und Adelsherrschaft aufgehoben hat und daß der russische Despotismus bereits vor dem verlorenen Krieg verurteilt war, da keine Inzucht innerhalb der Europa beherrschenden Familien ein Geschlecht von Zaren hätte erzeugen können, fähig, der Sprengkraft des Dynamits zu widerstehen.

Ja, vielleicht zahlen wir mit der gegenwärtigen, an den Weltkrieg anschließenden Wirtschaftskrise auch nur den Preis für den letzten großartigen Sieg über die Natur, die Eroberung des Luftraums. Das klingt nicht sehr einleuchtend, aber wenigstens die ersten Glieder des Zusammenhangs sind klar zu erkennen. Die Politik Englands fußte auf der Sicherheit, die ihm das seine Küsten umspülende Meer verbürgte. Im Moment, da Blériot den Kanal im Aeroplan überflogen hatte, war diese schützende Isolierung durchbrochen, und in jener Nacht, als in Friedenszeiten [193] und zu Übungszwecken ein deutscher Zeppelin über London kreiste, war wohl der Krieg gegen Deutschland beschlossene Sache.[1] Auch die Drohung des Unterseeboots ist dabei nicht zu vergessen.

Ich schäme mich beinahe, ein Thema von solcher Wichtigkeit und Kompliziertheit vor Ihnen mit so wenigen unzureichenden Bemerkungen zu behandeln, weiß auch, daß ich Ihnen nichts gesagt habe, was Ihnen neu ist. Es liegt mir nur daran, Sie aufmerksam zu machen, daß das Verhältnis des Menschen zur Beherrschung der Natur, der er seine Waffen zum Kampf gegen seinesgleichen entnimmt, notwendigerweise auch seine ökonomischen Einrichtungen beeinflussen muß. Wir scheinen uns weit von den Problemen der Weltanschauung entfernt zu haben, aber wir werden bald wieder zur Stelle sein. Die Stärke des Marxismus liegt offenbar nicht in seiner Auffassung der Geschichte und der | darauf gegründeten Vorhersage der Zukunft, sondern in dem scharfsinnigen Nachweis des zwingenden Einflusses, den die ökonomischen Verhältnisse der Menschen auf ihre intellektuellen, ethischen und künstlerischen Einstellungen haben. Eine Reihe von Zusammenhängen und Abhängigkeiten wurden damit aufgedeckt, die bis dahin fast völlig verkannt worden waren. Aber man kann nicht annehmen, daß die ökonomischen Motive die einzigen sind, die das Verhalten der Menschen in der Gesellschaft bestimmen. Schon die unzweifelhafte Tatsache, daß verschiedene Personen, Rassen, Völker unter den nämlichen Wirtschaftsbedingungen sich verschieden benehmen, schließt die Alleinherrschaft der ökonomischen Momente aus. Man versteht überhaupt nicht, wie man psychologische Faktoren übergehen kann, wo es sich um die Reaktionen lebender Menschenwesen handelt, denn nicht nur, daß solche bereits an der Herstellung jener ökonomischen Verhältnisse beteiligt waren, auch unter deren Herrschaft können Menschen nicht anders als ihre ursprünglichen Triebregungen [194] ins Spiel bringen, ihren Selbsterhaltungstrieb, ihre Aggressionslust, ihr Liebesbedürfnis, ihren Drang nach Lusterwerb und Unlustvermeidung. In einer früheren Untersuchung haben wir auch den bedeutsamen Anspruch des Über-Ichs geltend gemacht, das Tradition und Idealbildungen der Vergangenheit vertritt und den Antrieben aus einer neuen ökonomischen Situation eine Zeit lang Widerstand leisten wird. Endlich wollen wir nicht vergessen, daß über die Menschenmasse, die den ökonomischen Notwendigkeiten unterworfen ist, auch der Prozeß der Kulturentwicklung – Zivilisation sagen andere – abläuft, der gewiß von allen anderen Faktoren beeinflußt wird, aber sicherlich in seinem Ursprung von ihnen unabhängig ist, einem organischen Vorgang vergleichbar, und sehr wohl imstande, seinerseits auf die anderen Momente einzuwirken. Er verschiebt die Triebziele und macht, daß die Menschen sich gegen das sträuben, was ihnen bisher erträglich war; auch scheint die fortschreitende Erstarkung des wissenschaftlichen Geistes ein wesentliches Stück von ihm zu sein. Wenn jemand imstande wäre, im einzelnen nachzuweisen, wie sich diese verschiedenen Momente, die allgemeine menschliche Triebanlage, ihre rassenhaften Variationen und ihre kulturellen Umbildungen unter den Bedingungen der sozialen Einordnung, der Berufstätigkeit und Erwerbsmöglichkeiten gebärden, einander hemmen und fördern, wenn jemand das leisten könnte, dann würde er die Ergänzung des Marxismus zu einer wirklichen Gesellschaftskunde gegeben haben. Denn auch die Soziologie, die vom Verhalten der Menschen in der Gesellschaft handelt, kann nichts anderes sein als angewandte Psychologie. Streng genommen gibt es ja nur zwei Wissenschaften, Psychologie, reine und angewandte, und Naturkunde.

Mit der neugewonnenen Einsicht in die weitreichende Bedeutung ökonomischer Verhältnisse ergab sich die Versuchung, deren Abänderung nicht der historischen Entwicklung zu überlassen, sondern sie durch revolutionären Eingriff selbst durchzusetzen. In seiner Verwirklichung im russischen Bolschewismus hat [195] nun der theoretische Marxismus die Energie, Geschlossenheit und Ausschließlichkeit einer Weltanschauung gewonnen, gleichzeitig aber auch eine unheimliche Ähnlichkeit mit dem, was er bekämpft. Ursprünglich selbst ein Stück Wissenschaft, in seiner Durchführung auf Wissenschaft und Technik aufgebaut, hat er doch ein Denkverbot geschaffen, das ebenso unerbittlich ist wie seinerzeit das der Religion. Eine kritische Untersuchung der marxistischen Theorie ist untersagt, Zweifel an ihrer Richtigkeit werden so geahndet wie einst die Ketzerei von der katholischen Kirche. Die Werke von Marx haben als Quelle einer Offenbarung die Stelle der Bibel und des Korans eingenommen, obwohl sie nicht freier von Widersprüchen und Dunkelheiten sein sollen als diese älteren heiligen Bücher.

Und obwohl der praktische Marxismus mit allen idealistischen Systemen und Illusionen erbarmungslos aufgeräumt hat, hat er doch selbst Illusionen entwickelt, die nicht weniger fragwürdig und unbeweisbar sind als die früheren. Er hofft, im Laufe weniger Generationen die menschliche Natur so zu verändern, daß sich ein fast reibungsloses Zusammenleben der Menschen in der neuen Gesellschaftsordnung ergibt und daß sie die Aufgaben der Arbeit zwangsfrei auf sich nehmen. Unterdes verlegt er die in der Gesellschaft unerläßlichen Triebeinschränkungen an andere Stellen und lenkt die aggressiven Neigungen, die jede menschliche Gemeinschaft bedrohen, nach außen ab, stürzt sich auf die Feindseligkeit der Armen gegen die Reichen, der bisher Ohnmächtigen gegen die früheren Machthaber. Aber eine solche Umwandlung der menschlichen Natur ist sehr unwahrscheinlich. Der Enthusiasmus, mit | dem die Menge gegenwärtig der bolschewistischen Anregung folgt, solange die neue Ordnung unfertig und von außen bedroht ist, gibt keine Sicherheit für eine Zukunft, in der sie ausgebaut und ungefährdet wäre. Ganz ähnlich wie die Religion muß auch der Bolschewismus seine Gläubigen für die Leiden und Entbehrungen des gegenwärtigen Lebens durch das Versprechen eines [196] besseren Jenseits entschädigen, in dem es kein unbefriedigtes Bedürfnis mehr geben wird. Dies Paradies soll allerdings ein diesseitiges sein, auf Erden eingerichtet und in absehbarer Zeit eröffnet werden. Aber erinnern wir uns, auch die Juden, deren Religion nichts von einem jenseitigen Leben weiß, haben die Ankunft des Messias auf Erden erwartet, und das christliche Mittelalter hat wiederholt geglaubt, daß das Reich Gottes nahe bevorsteht.

Es ist nicht zweifelhaft, wie die Antwort des Bolschewismus auf diese Vorhalte lauten wird. Er wird sagen: Solange die Menschen in ihrer Natur noch nicht umgewandelt sind, muß man sich der Mittel bedienen, die heute auf sie wirken. Man kann den Zwang in ihrer Erziehung nicht entbehren, das Denkverbot, die Anwendung der Gewalt bis zum Blutvergießen, und wenn man nicht jene Illusionen in ihnen erweckte, würde man sie nicht dazu bringen, sich diesem Zwang zu fügen. Und er könnte höflich ersuchen, ihm doch zu sagen, wie man es anders machen könnte. Damit wären wir geschlagen. Ich wüßte keinen Rat zu geben. Ich würde gestehen, daß die Bedingungen dieses Experiments mich und meinesgleichen abgehalten hätten, es zu unternehmen, aber wir sind nicht die einzigen, auf die es ankommt. Es gibt auch Männer der Tat, unerschütterlich in ihren Überzeugungen, unzugänglich dem Zweifel, unempfindlich für die Leiden Anderer, wenn sie ihren Absichten im Wege sind. Solchen Männern verdanken wir es, daß der großartige Versuch einer solchen Neuordnung jetzt in Rußland wirklich durchgeführt wird. In einer Zeit, da große Nationen verkünden, sie erwarten ihr Heil nur vom Festhalten an der christlichen Frömmigkeit, wirkt die Umwälzung in Rußland – trotz aller unerfreulichen Einzelzüge – doch wie die Botschaft einer besseren Zukunft. Leider ergibt sich weder aus unserem Zweifel noch aus dem fanatischen Glauben der Anderen ein Wink, wie der Versuch ausgehen wird. Die Zukunft wird es lehren, vielleicht wird sie zeigen, daß der Versuch vorzeitig unternommen wurde, daß eine durchgreifende [197] Änderung der sozialen Ordnung wenig Aussicht auf Erfolg hat, solange nicht neue Entdeckungen unsere Beherrschung der Naturkräfte gesteigert und damit die Befriedigung unserer Bedürfnisse erleichtert haben. Erst dann mag es möglich werden, daß eine neue Gesellschaftsordnung nicht nur die materielle Not der Massen verbannt, sondern auch die kulturellen Ansprüche des Einzelnen erhört. Mit den Schwierigkeiten, welche die Unbändigkeit der menschlichen Natur jeder Art von sozialer Gemeinschaft bereitet, werden wir freilich auch dann noch unabsehbar lange zu ringen haben.

Meine Damen und Herren! Lassen Sie mich zum Schluß zusammenfassen, was ich über die Beziehung der Psychoanalyse zur Frage der Weltanschauung zu sagen hatte. Die Psychoanalyse, meine ich, ist unfähig, eine ihr besondere Weltanschauung zu erschaffen. Sie braucht es nicht, sie ist ein Stück Wissenschaft und kann sich der wissenschaftlichen Weltanschauung anschließen. Diese verdient aber kaum den großtönenden Namen, denn sie schaut nicht alles an, sie ist zu unvollendet, erhebt keinen Anspruch auf Geschlossenheit und Systembildung. Das wissenschaftliche Denken ist noch sehr jung unter den Menschen, hat zuviele der großen Probleme noch nicht bewältigen können. Eine auf die Wissenschaft aufgebaute Weltanschauung hat außer der Betonung der realen Außenwelt wesentlich negative Züge, wie die Bescheidung zur Wahrheit, die Ablehnung der Illusionen. Wer von unseren Mitmenschen mit diesem Zustand der Dinge unzufrieden ist, wer zu seiner augenblicklichen Beschwichtigung mehr verlangt, der mag es sich beschaffen, wo er es findet. Wir werden es ihm nicht verübeln, können ihm nicht helfen, aber auch seinetwegen nicht anders denken.

Noten

[1] So wurde es mir im ersten Kriegsjahr von vertrauenswürdiger Seite mitgeteilt.

Di Antonello Sciacchitano

Nato a San Pellegrino il 24 giugno 1940. Medico e psichiatra, lavora a Milano come psicanalista di formazione lacaniana; riceve domande d'analisi in via Passo di Fargorida, 6, tel. 02.5691223: E' redattore della rivista di cultura e filosofia "aut aut", fondata da Enzo Paci nel 1951.

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