Meno diritto in psicanalisi, più diritto alla psicanalisi

Intervento al Convegno “Il disagio della cultura nella nostra modernità”, organizzato dal movimento psicanalitico Nodi freudiani, nella tavola rotonda dal titolo “Norma e legalità. Riflessi sulla formazione”, moderata da Franco Quesito (psicanalista, Torino) con la partecipazione di: Simone Berti (psicanalista, Firenze), Piergiorgio Curti (psicanalista, Livorno), Giovanni Callegari (psicanalista, Torino), Moreno Manghi (psicanalista, Pordenone), Antonello Sciacchitano (psicanalista, Milano).

12 ottobre 2013, Palazzo Cusani, Milano

Ho poco tempo. Do per scontati i ringraziamenti.

Il titolo manifesto del mio intervento è “Meno diritto in psicanalisi, più diritto alla psicanalisi”; il titolo latente è: “Meno medicina in psicanalisi”. Non che io voglia fare un discorso contro la medicina; sarebbe per me per lo meno innaturale: io sono medico, mio padre era medico, mio zio materno era medico. Intendo, invece, fare un discorso contro l’inquinamento medicale della psicanalisi. Perché?

Cerco di dire qualche ragione.

Jacques Lacan
Jacques Lacan

Medicina e diritto sono due varianti del discorso dominante, cioè del discorso cui tutti siamo soggetti in quanto cittadini dello Stato di diritto. Nel ’69 Lacan tenne uno dei suoi migliori seminari, il xvii, per dimostrare che il discorso dello psicanalista è l’inverso del discorso dominante. Non entro nei dettagli del formalismo lacaniano. Mi limito a precisare che in tutte le sue varianti, tra cui medicina e diritto sono le principali, il discorso dominante ha una caratteristica che non varia, quella di essere un discorso ontologico; stabilisce l’essere che è, e deve essere, ed esclude l’essere che non è, e non deve essere. Cosa fa la medicina? La medicina riconosce l’essere morboso sul punto in cui sta decadendo, cioè mentre sta per passare al non essere. Cosa fa il diritto? Il diritto stabilisce le norme per permanere nell’essere legale, riconosciuto dallo Stato, quindi per essere nello Stato e non nell’esilio.

Per contro, la psicanalisi non è un discorso ontologico. La psicanalisi è un discorso epistemico; non tratta l’essere, caro Piergiorgio. La psicanalisi tratta il sapere. In particolare, la psicanalisi tratta quel particolare sapere che non si sa di sapere ancora. Nella sua lingua Freud lo chiamava das Unbewusste, che si traduce male “inconscio”. Non c’entra la coscienza (in tedesco Bewusstsein), c’entra il sapere che non sa di sapersi ed è letteralmente “non saputo”, un-bewusst.

Detto questo in teoria, in pratica la psicanalisi orienta il percorso del soggetto verso quel luogo dove si cela la verità di un sapere ignoto, e che resterà per gran parte ignoto, e cerca così di far luce su un oggetto che nel soggetto produce un desiderio fino ad allora sconosciuto, alla coscienza almeno; un desiderio inutile alle applicazioni promosse dal potere. A chi è assuefatto a un certo gergo filosofico direi che il soggetto del diritto non è il soggetto dell’inconscio. Sono sì entrambi soggetti, ma soggetti a leggi diverse. Il primo è soggetto alla legge seria del padrone, alla norma imposta dal vincitore; il secondo non sa né di vincitori né di vinti, ma solo della legge futile – che fa rima con inutile – la legge futile del desiderio, tanto futile da non potersi neppure dire legge, tanto meno norma.

Detto questo in teoria, è facile dedurre le conseguenze pratiche della contrapposizione tra i due discorsi: quello dominante e quello analitico. Le operazioni mediche e giuridiche sono per tutti e uguali per tutti; hanno oneri per tutti, uniformemente distribuiti su tutta la collettività; la cura medica è un diritto per tutti per cui tutti si tassano; la protezione civile è per tutti coloro che calpestano il suolo dello Stato; il diritto è il nomos della terra – non lo dico io, lo sosteneva Carl Schmitt.

Per contro, l’operazione psicanalitica non è per tutti; è solo per chi ne fa esplicita domanda ed è disposto a farsi carico dell’onere inerente. La cura analitica è singolare: è del singolo e per il singolo nella sua specifica singolarità, direi riprendendo il discorso di Prete di questa mattina a proposito della libera parola poetica. La psicanalisi risponde a una “chiamata”; direi quasi, se i termini non fossero fraintesi in senso religioso, che il soggetto risponde a una “vocazione” e che la cura analitica è una “missione”. Io ho decenni di formazione cattolica sulle spalle; se uso questi termini, so quel che dico. La missione di cui si tratta in psicanalisi, pur essendo sintomatica e singolare, non è indipendente dall’orizzonte collettivo in cui sorge e in cui si inscrive.

Date queste premesse, arrivo subito a concludere sulla pertinenza delle leggi dello Stato. È pertinente la legge dello Stato che regola l’esercizio della medicina, perché cura l’essere che sta per non essere; è invece impertinente, in tutti i sensi del termine, una legge dello Stato che interferisca con la psicanalisi, la quale non si cura dell’essere ma del sapere – te lo ripeto, caro Piergiorgio, se non l’avessi ancora capito. La cura analitica è una variante della scienza; essa opera sul sapere simmetricamente al modo in cui la variante medica del discorso dominante opera sull’essere. Entrambe, psicanalisi e scienza, operano su saperi congetturali, non ancora convalidati e sempre sul punto di essere confutati. Freud li chiamava “costruzioni in analisi”. Di conseguenza è giusto che sia regolato a norma di legge l’esercizio della professione medica, che interviene sull’essere del corpo, mentre non dovrebbe essere perseguibile da nessun pm l’esercizio della psicanalisi che interviene sul sapere dell’anima, che non sa ancor di sapere quel che sa. Purtroppo i pm sono tendenzialmente impiccioni; confondono essere con sapere e se la prendono, per legge, con gli psicoterapeuti che esercitano la psicanalisi senza essere autorizzati, non sapendo quel che predicava Lacan e cioè che lo psicanalista si autorizza da sé… insieme a qualche altro. Lo psicanalista si autorizza, infatti, sulla base del proprio sapere (non del proprio essere) ad ascoltare il sapere dell’altro (non l’altrui essere).

Io avrei finito qui il mio discorso. Se avete pazienza, prolungo il discorso ritornando a Freud con qualche intento critico nei confronti del creatore della psicanalisi. Lo dico in premessa, perché sono freudiano anche quando critico Freud e lacaniano, e forse di più, anche quando critico Lacan.

Nel lontano 1926 Freud spezzò una lancia a favore della laicità della psicanalisi scrivendo un pamphlet sulla Laienanalyse. Come lui stesso riconobbe, il suo fu un buco nell’acqua. La traduzione ufficiale cancella addirittura il significante “laico”; parla di “analisi condotta da non medici”; non parla di laicità, quasi avesse paura del termine. Perciò, ha avuto un senso riproporre una nuova traduzione della Frage der Laienanalyse, che ho fatto insieme a Davide Radice; ha avuto il senso di riproporre il termine espunto proprio da colui che si definiva il padre della psicanalisi italiana, Cesare Musatti, reintroducendo il significante freudiano originale “laico”.

In francese laie si traduce “profano”. Non mi piace questa traduzione, perché convoca la contrapposizione religiosa. È difficile evitare il riferimento religioso in psicanalisi o in filosofia ma, quando è possibile, è meglio evitare certi riferimenti. Per me “laico” vuol dire “autonomo” rispetto a e nel rispetto di ogni autorità costituita, quella religiosa compresa. Per togliere ogni connotazione vagamente rivoluzionaria al mio discorso, spiego subito il senso concreto in cui intendo l’autonomia della laicità. Laico vuol semplicemente dire scientifico; l’autonomia che la psicanalisi pretende è l’autonomia della scienza rispetto a qualunque legge dello Stato. Nello stesso senso, la psicanalisi è laica se non esistono preti o presbiteri che la gestiscono all’interno di una chiesa nel nome di un’ortodossia convenuta. La psicanalisi è laica se nasce da un collettivo di pensiero scientifico, nel senso del Denkkollectiv secondo Ludwik Fleck.

E qui avrei finito per la seconda volta il mio intervento. So bene di sollevare un vespaio; so bene che alla scienza si resiste; si contesta alla scienza di essere oggettiva mentre la psicanalisi è soggettiva; di essere quantitativa mentre la psicanalisi è qualitativa; di essere indeterministica mentre la psicanalisi è (sovra)deterministica. Tutto vero e tutto giusto; dovrei tacermi per sempre. Se parlo ancora per qualche minuto… quanti?

– Due.

– Grazie, me ne bastano meno per dire che la psicanalisi sarà veramente scientifica se e solo se avrà espulso – espunto – da sé ogni riferimento medicale, quindi ogni aggancio possibile a leggi dello Stato, non per velleità illegali, ma per perseguire i propri intenti scientifici. O la scienza è potenzialmente illegale (vuol dire “dannosa”), tanto da essere preventivamente normata da qualche regolamentazione statuale?

E – lo dico in breve – se sarà veramente scientifica, la psicanalisi non avrà bisogno di enfatizzare troppo il problema della formazione, che avverrà progressivamente e tacitamente partecipando alla vita del collettivo di pensiero. La formazione analitica, proprio come la terapia delle nevrosi, sarà un effetto collaterale della pratica scientifica dell’analisi. Né l’una né l’altra vanno ricercate per sé come finalità autonome dell’analisi.

A questo punto, ho veramente finito e concludo con la citazione della lettera di Freud a Groddeck del 21 dicembre1924: “È difficile praticare la psicanalisi da isolati”. Dopo quarant’anni di mestiere, mi sono faticosamente guadagnato il titolo, cui tengo moltissimo, di psicanalista free lance, fuori da ogni associazione professionale; però ripeto con Freud: “È difficile praticare la psicanalisi da isolati; si tratta di un’attività eminentemente collettiva”. Non ho parlato a caso di Denkkollectiv.

Grazie, per l’attenzione,

Antonello Sciacchitano

Post Scriptum

In fase di registrazione dell’intervento posso concedermi lo spazio per rispondere alla questione sollevata durante la discussione da Giovanni Sias sulla copertura psicoterapeutica della psicanalisi, questione a cui non ho avuto il tempo di rispondere.

Copertura psicoterapeutica della psicanalisi significa copertura medica. La copertura medica è proprio ciò di cui la psicanalisi scientifica, cioè laica, non ha bisogno. Fu un errore teorico e politico di Freud quello di aver messo sul mercato la sua invenzione come terapia di malattie che mediche non sono, perché non chiedono di guarire: le psiconevrosi e segnatamente l’isteria. Fu un errore, di cui paghiamo le conseguenze politiche ancora oggi, solo parzialmente scusabile perché, come tanti prima e dopo di lui, Freud riteneva che la medicina fosse una scienza. Fu l’errore che rese velleitario il suo pamphlet sull’analisi laica in quanto era minato da un’intrinseca contraddizione, come dimostro nel commento alla nuova traduzione de La questione dell’analisi laica, fatta a quattro mani con Davide Radice.

Freud, infatti, pretendeva riconoscere il diritto di esercitare la psicanalisi ai non medici nel momento stesso in cui difendeva lo statuto medico della psicanalisi, presentandola come pratica agente contro gli agenti morbosi delle psiconevrosi – le rimozioni infantili – per restituire lo stato di salute premorboso, esattamente come opera il medico che cura la tubercolosi. (Il paragone tra tubercolosi e isteria è ampiamente sviluppato da Freud in Eziologia dell’isteria del 1895). Insomma, Freud estendeva il diritto di esercitare una psicanalisi medica a non medici. Giusta la proposta pratica, ma non in sintonia con la giustificazione teorica. Doveva necessariamente fare un buco nell’acqua.

Il titolo latente del mio intervento Meno medicina in psicanalisi è così giustificato. Facciamo meno medicina, facciamo più scienza in psicanalisi ed eviteremo l’intrusione dei pm nel campo freudiano. Questa sarà la vera difesa della psicanalisi, sicuramente politicamente più efficace delle prese di posizione sindacale di certi manifesti.

 

Di Antonello Sciacchitano

Nato a San Pellegrino il 24 giugno 1940. Medico e psichiatra, lavora a Milano come psicanalista di formazione lacaniana; riceve domande d'analisi in via Passo di Fargorida, 6, tel. 02.5691223: E' redattore della rivista di cultura e filosofia "aut aut", fondata da Enzo Paci nel 1951.

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