Manghi su quel sapere che è l’inconscio

Con il consenso dell’autore, pubblico una mail che Moreno Manghi mi ha inviato pochi giorni fa.

Caro Davide, la forza e l’intelligenza del lavoro infaticabile di Sciacchitano sta nel denunciare la camicia di Nesso Ippocratica (la “gabbia medicale”) di cui Freud in-veste la psicanalisi, e nel reciderla con una sorta di rasoio di Occam. Lo stesso intervento viene poi eseguito sulle inevitabili conseguenze di quella camicia, perché se Freud, da un lato, resta il solo a difendere la laicità della psicanalisi, è solo dopo avere messo quest’ultima nelle mani di Jones, il suo businessman, e di Eitingon, il suo clerc. L’asportazione della camicia deve ritrovare il nesso con Freud, deve promuovere il “ritorno di Freud, come dice Pohlen, in quanto metro di valutazione del pensiero psicanalitico”. Per usare le parole di Antonello:

“Riconosco il nucleo non medico ma scientifico della psicanalisi freudiana in tre assiomi esistenziali, espressamente formulati da Freud: 1) esiste l’inconscio, che è un sapere che non si sa di sapere; 2) esiste la rimozione primaria; 3) esiste la Nachträglichkeit, cioè il sapere inconscio produce effetti differiti nel tempo. Sono questi gli assiomi che salvano l’eticità della psicanalisi, nel momento in cui ne promuovono la scientificità.”

Sigmund Freud ritratto da Hermann Struck (1914)

In questa operazione, il testo di Pohlen, suffragato dai commenti, è di grande importanza.

Ammiro ogni giorno di più il vostro lavoro, che attualmente mi sembra uno dei pochissimi a testimoniare che la psicanalisi è viva. Lo considero come il “dritto” indispensabile di un “rovescio” a cui tento di dare un piccolo contributo, che consiste nel descrivere, nel vivo della pratica, cosa può essere una psicanalisi strappata ai significanti del discorso del padrone (e di quello dell’Università, sua variante aggiornata); mi sforzo di descrivere a chi non ne ha la più pallida idea (in quanto conosce solo una psicanalisi addomesticata dalle scuole abilitate alla psicoterapia) cosa può essere un atto analitico quando gli è restituita tutta la sua dimensione di tyche, e cioè l’invenzione di un sapere che non si può sapere prima, e che non può avere dei “modelli di riferimento”.

Ecco perché l’unica annotazione che mi preme di fare quando Sciacchitano definisce l’inconscio “un sapere che non si sa di sapere”, è il fatto che questo sapere non è già lì (come qualcosa di già depositato o iscritto in precedenza, e poi rimosso, e dunque si trattasse di riscoprirlo) ma il fatto che la sua invenzione viene resa possibile hic et nunc dal legame sociale detto “analisi” tra analista e analizzante.

Del sapere che è l’inconscio, nessuno, prima che esso si attualizzi, può saperne niente per la ragione che non esiste ancora (e non perché sarebbe “rimosso”). La Urverdrängung, che costituisce l’inconscio, non è la rimozione di un sapere precedente (quand’anche sconosciuto al soggetto), che deve essere dissepolto come un tesoro archeologico; la Urverdrängung è la prima, l’originaria rimozione della possibilità di inventare un sapere, ossia che il sapere è invenzione. Ciò che la rimozione originaria impedisce di sapere al soggetto è appunto questo: che il sapere si può inventare, che esiste la possibilità, per tutti, non già di “sapere qualcosa” ma di essere gli inventori del proprio sapere. Quest’ultimo è “nuovo” perché non è più costretto a passare per i “vecchi” significanti-padroni, che riducono il sapere alla mera trasmissione (trapasso) di esperienze, o nozioni, o concetti che sono già stati acquisiti in precedenza. Si potrebbe anche dire che dopo la rimozione originaria noi conosciamo il sapere solo in quanto “discorso dell’Università”. Insomma, l’Inconscio (come sostantivo) non è costituito da dei significanti a cui non abbiamo accesso (questo non è che l’inconscio aggettivato, l’inconscio nel senso del rimosso), ma è la possibilità di inventare un nuovo sapere senza che debba venire appreso da qualcun altro; un sapere, dunque, che non ha bisogno né di maestri né di allievi. L’inconscio non è: “non sanno di sapere” (ecco allora che arriverà un pétit maitre, lo psicanalista, a insegnarglielo); ma: “non sanno di sapere che il sapere lo possono inventare”.

Ma che genere di “sapere” è un sapere che non si trasmette ma si inventa? (Ricordo che per Lacan è proprio a questo che un analista deve essere formato, e che la “didattica” ha solo una funzione sussidiaria). Io penso che si tratti di un sapere simile a quello creato dal processo artistico.

Ecco perché se l’insistenza sulla scientificità della psicanalisi (secondo la concezione di Antonello) è indispensabile in quanto pars destruens che la libera dal discorso universitario in tutte le sue accezioni, la pars costruens della psicanalisi è invece il rapporto all’arte.

Come scrive Barbara Low in un articolo prediletto anche da Lacan:

“Questa (la psicanalisi) è la via dell’artista, nella quale possiamo includere il vero uomo di scienza”, e cita subito dopo “lo stile di Freud”, con i suoi “effetti straordinariamente liberatori e illuminanti”.

 

Di Davide Radice

Consulente strategico, psicanalista e appassionato traduttore di Freud.

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