Lo smarrimento della domanda

Dal desiderio di formazione alla logica di mercato

A distanza di quasi 40 anni suonano di estrema attualità le parole pronunciate da Lacan in occasione del suo viaggio in Italia nel 19741: “Le cose sono arrivate al punto da aver bisogno di analisti. Senza dubbio è vero per l’Italia, come altrove, d’altronde. E non è una ragione sufficiente perché ve ne sia, voglio dire, perché qualcuno si consacri a questo.”

Lacan esordisce in quell’incontro con parole forti dicendo che si aspetta che qualcosa si produca in Italia, cioè che un certo numero di persone sia analizzato. E aggiunge: “Ma non dipende da me. Perché siate analisti – posizione assai difficile benché del tutto condizionata dal punto in cui siamo, – non posso assolutamente volerlo al vostro posto. Dovete volerlo voi. Occorre che ognuno si interroghi a riguardo e si decida a volerlo diventare.”

Non si può decidere al posto di un altro. Non c’è delega possibile in rapporto al desiderio. Ognuno in rapporto alla formazione si trova a sostenere e articolare la propria domanda. L’autorizzarsi in prima istanza è questo.

Invita poi a tener conto di quanto sia poco accattivante essere analista e persino a tratti disperante. L’analista è qualcuno che si fa consumare, si offre in pasto all’amore, un amore che, dice, “lo si deve al supposto sapere”. Un amore retto dalla supposizione di un sapere totalizzante che si attende di possedere. E poi un passaggio determinante:

“Insomma è supposto sapere e, senza l’analisi, non si saprebbe quanto l’amore sia debitore a questa supposizione. Grazie all’analisi lo si sa. E’ già un passo.”

Dunque l’analisi se non vuole rinnegare se stessa può saperne qualcosa della domanda che la sostiene, può saperne qualcosa soprattutto di ciò che la lavora in termini di non volerne sapere. Freud in Per la storia del movimento psicanalitico dice che la psicanalisi è più sincera anche in queste cose, cioè nel rivelare gli aspetti più scomodi dei legami che tesse.

E più tardi tutta l’esperienza della passe prende le mosse dal fatto che Lacan voleva che si interrogasse che cosa avveniva in fondo a un’analisi e perché si potesse desiderare di passare alla posizione dell’analista dopo averne visto gli effetti e dunque a cosa si riduceva l’analista alla fine del percorso analitico: cascame; Lacan che ha avuto l’onestà di riconoscere che anche lì, nella passe, aveva dovuto mettere qualcosa di promettente alla fine del percorso per indurli ad andare, un titolo, una promessa, con il rischio di tradire l’analisi stessa.

La formazione analitica si articola sul desiderio e ha come suo tratto determinante mantenere aperta una interrogazione su ciò che sostiene e alimenta la domanda di analisi che la fa didattica e i fantasmi di legittimazione che agitano il passaggio all’analista che in quanto atto analitico non può mai darsi in modo definitivo e non si può garantire una volta per tutte. L’analista deve dunque diventare il supporto di un’interrogazione che procede sull’attesa di un sapere che si sottrae e sul quale l’analista deve riconoscere la propria ignoranza per non bloccarne gli effetti.

Quanto siamo distanti da una formazione in cui si tratta di acquisire una professionalità decretata da un titolo che la certifichi una volta per tutte, ottenuto alla fine di un percorso determinato! Se il termine laico risuona in tedesco come dilettante, amatoriale2 la formazione in quanto atto analitico è non professionale ma piuttosto artistica e deve rispettare il tratto parziale, incompiuto, del sapere di cui si tratta. Non si è analisti, ma c’è dell’analista ogni volta che si dà un atto che si rivela analitico.

Di fatto dal momento in cui in Italia abbiamo cominciato ad interrogarci sulla Legge 56/89 che istituiva l’Ordine degli psicologi e la possibilità di svolgere attività psicoterapeutica ci siamo dimenticati di continuare a interrogare “l’atto analitico”. E’ stato già sottolineato altrove come ci siamo impegnati senza grandi risultati a garantire uno spazio di esistenza allo psicanalista senza preoccuparci se la psicanalisi gli sarebbe sopravvissuta. Non ci siamo dunque curati di garantire che l’atto analitico potesse sopravvivere e rimanere tale; di chiarire cioè cosa determinasse che un atto fosse davvero “analitico”.

Ci siamo preoccupati di salvare la figura dell’analista, ci siamo interrogati sulla professione, sul suo sapere, su come delimitarne il campo di competenza in rapporto ad altri campi di competenza, ma così facendo abbiamo perso di vista proprio l’analisi. Questa riguarda un sapere che non è confinabile né definibile nel modo in cui in genere riteniamo di dover definire il sapere, cioè in termini tali che se ne possa garantire consistenza e padronanza come riteniamo accada al sapere dello specialista. La parola dilettante richiama qualcosa che si fa perché si ama, in cui ci si diletta ma che non ci compete in senso pieno, e non comporta un conferimento di identità. Rimanda dunque a parziale, precario, dispropriante, tutti aggettivi che riguardano la posta in gioco dell’analisi.

Serge Leclaire
Serge Leclaire

Serge Leclaire ci dice che solo una cosa è certa: il giorno in cui l’analista sarà al suo posto non ci sarà più analisi.3 Il suo essere in ascolto di una verità che parla ma che non è lui a dover salvare fa della sua posizione qualcosa di irriducibile, non suturabile.

Il soggetto della psicanalisi è il soggetto tragico, è un soggetto fragile ma in grado di assumersi la responsabilità di ciò che è, senza averlo determinato. Freud attraverso la figura di Dimitrij Karamazov indica la possibilità di riconoscere la propria responsabilità, senza passaggio all’atto laddove l’uomo sia in grado di assumere e riconoscere il proprio desiderio.4 Nell’assunzione del proprio desiderio ci si riconosce responsabili di qualcosa che non ci appartiene completamente e di cui non abbiamo padronanza piena.

L’ idea di soggetto che oggi è dominante sembra coincidere invece con l’esigenza di una tenuta senza tregua mentre la psicanalisi ci invita a scoprirlo negli atti mancati, nelle lacune, nella parzialità. Il desiderio rimanda all’angoscia e rimanda ad una libertà ma non una libertà senza legami. Il desiderio vincola ma con legami fuori dalla dipendenza. L’Io tra l’altro è il tratto meno libero del soggetto, coacervo di identificazioni e totalmente dipendente dal riconoscimento dell’altro, è quindi contingente, fragile, anacronistico. E per questo è aberrante per Lacan puntare al suo rafforzamento come invece invita la cosiddetta ortopedia psicologica. Si tratta di consolidare solo la funzione immaginaria del soggetto.

Il desiderio è sempre fondamentalmente inadeguato al suo oggetto. L’uomo non è immaturo per una sfasatura della sua organizzazione, ma prematuro per vocazione, sempre incompiuto e in questa “apertura vitale” il suo desiderio si origina destinandolo a una storia lacunosa di sviluppo discontinuo e conflittuale. 5

Il desiderio può prendere forma solo da un’apertura vitale che si chiama incompiutezza perché nella compiutezza niente può prendere vita come desiderio.

Come è possibile che questa dimensione tragica dell’opera di Freud venga pensata come la base dell’umanesimo semplicistico e moralistico che adesso si vuole derivare dalla psicanalisi?

Il punto fondamentale di confusione originato dalla legge 56/89 in Italia punta proprio a creare un rapporto di continuità tra psicoterapia e psicoanalisi. La psicanalisi la si liquida come “la regina delle psicoterapie”. In un modo o nell’altro si finisce per sostenere che sono la stessa cosa o per lo meno che sono confrontabili su una stessa scala. Come si è giunti a questa confusione? Questa confusione è stata favorita dal fatto che si cominciasse a pensare di dover difendere un mercato che significa innanzitutto circolazione di denaro e possibilità di guadagno. La formazione perde di vista la domanda di sapere che dovrebbe esserne il motore in favore di una domanda più redditizia di sicurezza e salute. Domanda desoggettivata che si soddisfa con risposte e quindi con la produzione di professionisti e specialisti.

Questo ha portato inevitabilmente ad una complicità con il discorso culturale dominante, con il quale ci ritroviamo a fare costantemente i conti, sia come analisti che come esseri umani, cittadini di questo mondo; e cioè quello secondo cui l’universo attraverso il quale si interpreta la sofferenza, il disagio mentale e il sintomo è ormai quello della “tecnica”. Le tecniche ci mettono al riparo dalla domanda, ci possono garantire un potere, la trasmissibilità di un sapere in quanto potere e la possibilità di attivare forme di controllo sull’affidabilità di questa trasmissione.

Freud a proposito dell’affaire Reik affermava “la situazione analitica non sopporta terzi” e con ciò quindi si escludeva l’opportunità di far intervenire un’autorità di qualsiasi tipo esterna ad autenticare o validare la pratica analitica.

C’è ormai un mercato delle psicoterapie, non solo un mercato delle professioni ma una borsa valori psi. Le pratiche di scambio di parola devono essere inserite a pieno titolo nelle leggi del mercato e quindi regolamentate. In nome della sicurezza degli utenti nel quadro di una nuova legge di salute pubblica. Si afferma una nuova logica di mercato della sicurezza e della salute. Se ci poniamo da questa prospettiva come si pensa di poter sfuggire a questa logica, per quale motivo la psicanalisi dovrebbe essere esentata dalla logica del controllo? Le psicoterapie dal canto loro vi entrano a pieno titolo accordandosi su un punto decisivo della logica di consumo: promettendo la soddisfazione (attenuazione o soppressione del sintomo). Le psicoterapie promuovono la novità, le tecniche innovative entrando a pieno diritto nel discorso del consumo e della domanda. La psicanalisi dovrebbe invece caratterizzarsi come minaccia nei confronti di questa logica perché si interroga su ciò che opera in questa corsa cieca dominata dal discorso capitalista.

Il soggetto proposto dalla psicologia è luogo di unificazione delle facoltà degli affetti e delle competenze. La psicologia diventa il luogo di un soggetto sostenuto da un sapere normativo, performativo e prestante, in cui il sapere diventa promessa di unità. Costruiamo un personaggio al mercato delle proposte psi. Un personaggio giusto per ogni occasione.

Pensate alla quantità innumerevole di offerte nate sul piano della formazione in Italia dove si accalcano oltre 400 scuole con tagli differenti. Davvero ad ognuno la sua psicoterapia su misura. La risposta alla domanda si specializza, ad ogni domanda la sua risposta, e nessuna domanda riguarda più l’uomo nella sua complessità ma un uomo ridotto ogni volta al lato in cui si mostra, all’istantanea che scattiamo.

Il rischio della psicanalisi non è più quello di farsi escludere dalla medicina, ma di lasciarsi includere nell’impero della psicologia, delle sue pratiche e delle sue modalità di riconoscimento.

Dal rischio dell’esclusione e della marginalità al nuovo rischio di inclusione e reclutazione.6

Si diventa una delle modalità dell’offerta psi, che possiamo giocarci come posizione di elite: solo per pochi, anticommerciale, oppure battagliare sul marketing. Così offrendo l’ingresso nell’ordine siamo stati tutti reclutati e la domanda di formazione si è smarrita nei rivoli delle risposte preconfezionate.

Adesso siamo arrivati alla battaglia finale nei confronti della posizione di marginalità. Non devono esserci posizioni extraterritoriali: o medicina o psicologia. Tertium non datur.

C’è la necessità di rovesciare la questione e di interrogare in nome della psicanalisi la domanda di sicurezza e di controllo che si rivolgeva a tutti. La psicanalisi infatti non può permanere come pratica senza prendere posizione, senza enunciare la propria posta in gioco. Tuttavia una posizione si può prendere anche restando nel campo del misconoscimento, una posizione presa a nostra insaputa. Il misconoscimento è una posizione che si assume e senza che a quel punto si abbia più nessuna possibilità di essere in gioco in quello che facciamo. Tagliando fuori il desiderio questi non è più articolabile e soprattutto non è più in gioco se non come l’assente.

Nella famosa lettera del 25 novembre del 1928 al pastore Pfister7, che molti prendono come l’atto che sancisce lo statuto laico della psicanalisi, Freud afferma di aver voluto difendere la psicanalisi (tramite due sue opere fondamentali come L’analisi laica e L’illusione) da medici e da preti e di sognare una categoria di pastori d’anime laici «che non hanno bisogno d’essere medici e non possono essere preti». Invitando quindi lo psicanalista a non confondersi con la figura del prete o del medico, ammoniva in questo modo la psicanalisi a non inseguire i miraggi del discorso salvifico che appartiene alla religione né a enfatizzare gli effetti terapeutici della psicanalisi che l’avrebbero appiattita sul discorso medico o psicoterapico.

Qui ci sono i due aspetti portanti della questione: da un lato il prendere le distanze da un discorso salvifico, cioè dal concepire l’analista come qualcuno che è lì a fare il Bene del paziente, che è lì per il Bene del paziente; dall’altro non enfatizzare gli aspetti terapeutici che la psicanalisi ha – e sarebbe assurdo negarlo! Ma appunto come diceva Lacan si danno de surcroît-, per non appiattirla su un discorso di tipo medico o psicoterapico, quindi su un tipo di ascolto e rilancio al soggetto che non è quello della psicanalisi.

Freud dice in definitiva che la psicanalisi è semplicemente quello che accade in un’analisi, cosa che può sembrare una grossa banalità ma che in realtà riguarda proprio l’essenza della psicanalisi. Quello che accade in un’analisi è che due persone si incontrano tra loro e lo fanno con una certa regolarità; una persona parla (l’analizzante) e l’altra ascolta (l’analista) e poi, più raramente, viceversa. Richiamando Shakespeare che dice “parole, parole, parole”, sembra che l’analisi sia ben poca cosa. Solo parole, eppure in questo scambio di parole qualcosa di significativo può accadere ma senza quel “prodigioso” che ha la magia, poiché alla psicanalisi mancano quegli effetti di rapidità che per certi versi la magia porta con sé. La psicanalisi infatti è lenta, è faticosa ed è costosa, tutti aspetti questi che sembrano renderla assai poco seduttiva.8

La psicanalisi è un lavoro sul soggetto, è un percorso di formazione soggettiva che, da un lato, non pretende appunto di agire per il Bene della persona, e dall’altro non ne ricerca una “normalizzazione”, o meglio una “omologazione” a quelle che sono le esigenze sociali. Essa non ha una propria concezione del mondo e quindi non può essere consolatoria o rassicurante, ma interroga il soggetto a partire dal sapere delle sue determinazioni inconsce che lo attraversano a sua insaputa.

Il sapere con cui ha a che fare la psicanalisi, e quindi con cui ha a che fare qualsiasi interrogazione riguardi la formazione dell’analista, è un sapere che è del soggetto che soffre e non un sapere dello specialista sulla sofferenza del soggetto. E’ un sapere inoltre che il soggetto non possiede ma da cui non cessa di essere lavorato. Tutto ciò segna una spartizione radicale tra psicanalisi e discorso medico e tra psicanalisi e psicoterapia. Qui non c’è una frattura tra il sapere sulla sofferenza ed il soggetto che soffre e che non sa niente del suo soffrire e che per tale motivo si rivolge ad un’altra persona per esserne illuminato. Il soggetto della psicanalisi è un soggetto che “sa”, che è attraversato da questo sapere sulla propria sofferenza, ma che “non vuole saperne di sapere”, perché questo sapere non gli si concede in termini di padronanza, di potere su sé stesso e sulla propria sofferenza. Non gli si concede dunque come promessa salvifica, ma è prospettiva di un lavoro di cui è chiamato ad assumersi la responsabilità. Così il sapere dell’analisi raccoglie il sapere dell’altro e lo attraversa facendolo diventare qualcosa. Per questo motivo il percorso di formazione dell’analista, che esordisce con una domanda di analisi personale, non può essere “una volta per tutte”, bensì dev’essere “un lavoro continuo”, anzi un invito al lavoro, un “percorso di formazione permanente”.

Cosa può significare per noi tornare a prendersi cura della domanda? Prendersi cura della domanda è qualcosa che nella nostra società rimane un fatto inedito, di questo bisogna avere consapevolezza: sprecare questa risorsa della psicanalisi è autolesionismo. Prendersi cura della domanda significa anche non rinchiudersi nel sapere di specialista, nel sapere dell’esperto. Ci troviamo in un mondo di specialisti e iperspecialisti. Per qualunque domanda c’è qualcuno che ha la risposta in vece del soggetto, che finisce per esentarlo dal pensiero. Forse noi non abbiamo nessuna di queste risposte però abbiamo la possibilità di mantenere aperta la domanda che ci è rivolta fino a che l’altro riconosca un desiderio di aprirsi all’infinito del proprio sapere.

Lo smarrimento allora oltre a richiamare turbamento, sconcerto dovuto a timore, confusione, apre allo stupore, alla meraviglia del ritrovamento. La domanda è perdita che apre al piacere della scoperta, del ritrovare. Mi occupo con la ricerca, ritrovo qualcosa che amo ma non per conservare o tesaurizzare. La mia ricerca è scienza aperta allo stupore.

Simone Berti
Berlino, 4 maggio 2013

 

Note

1 I passi che qui riprendo fanno parte dell’incontro che Lacan ebbe il 30 marzo 1974 in una sala del Centre Cultural Francais di Milano con il gruppo costituitosi a Milano come Scuola Freudiana. Una trascrizione dell’incontro è riportata in Lacan in Italia 1953-1978, La Salamandra, Milano 1978, pp. 230-258.

2  Mi riferisco a un passaggio sul termine laico e i differenti riferimenti nella lingua italiana e tedesca di Claus Diether Rath nella giornata su “La questione dell’analisi laica in Italia” del 4 maggio 2013 alla Psychoanalytische Bibliothek di Berlino.

3  Serge Leclaire, Rompere gli incantesimi. Una raccolta per gli affascinati dalla psicanalisi, Spirali edizioni, Milano 1983, p. 129.

4  C’è quasi una forma di gratitudine verso l’assassino che lo ha fatto al posto nostro. Cfr. Freud, Dostoevskij e il parricidio(1927) in Opere vol. X, Boringhieri, Torino 1978, p. 534.

5  J. B. Pontalis, Dopo Freud, Rizzoli, Milano 1973, p. 50.

6  Cfr. AA.VV., Manifesto per la psicanalisi, Edizioni ETS, Pisa 2012. Rimando in questi passaggi a un confronto con tutto il cap. IV, La società civile nella psicanalisi, pp. 99-125.

7  Psicanalisi e fede: carteggio con il pastore Pfister, Boringhieri, Torino, 1970.

8  Sigmund Freud, Il problema dell’analisi condotta da non medici, in Opere, cit., vol. X, p. 355 [La questione dell’analisi laica, Mimesis, Milano, Udine 2012, p. 27].

 

3 commenti

  1. Incompiutezza – il termine tecnico è “incompletezza” – è la caratteristica del sapere moderno, contrapposto all’antico che era completo. L’incompletezza epistemica fu codificata negli anni Trenta del secolo scorso da Gödel e Tarski rispettivamente in aritmetica e in logica. Fu introdotta molto prima in psicologia da Freud come inconscio, cioè come sapere incompleto perché non si sa di sapere. Sull’incompletezza non si sono ancora aggiornate le scuole di psicanalisi che credono di sapere tutto dell’inconscio e vendono questa illusione a caro prezzo.

    1. Intanto grazie Antonello anche per l’ospitalità. Hai ragione,
      mi trovi assolutamente d’accordo sul punto che sollevi. L’incompletezza epistemica
      ci insegna moltissime cose e codifica gli aspetti determinanti di ciò a cui Freud
      ci aveva dato accesso con la questione del sapere inconscio. Come sai ho amato
      molto Godel, dedicandogli anche parte della mia tesi di laurea. Pensatore tra i
      più fraintesi dalla sua stessa comunità, ha mostrato con una semplicità e
      chiarezza disarmante un limite dei sistemi fomali e del pensiero che li
      sosteneva e ha aperto con questo ulteriori risorse infinite del sapere
      matematico e logico. Tuttavia credo che a lui fondamentalmente interessasse
      restare su questo piano e penso non avesse nessuna inclinazione a rilanciare la
      questione della posta in gioco della fede nella completezza e consistenza della
      matematica o del sapere in generale. Quello che penso invece la psicanalisi possa
      e debba fare come sua peculiarità e tratto etico che solo lei può articolare è
      andare ad interrogare proprio il bisogno, l’esigenza di completezza e coerenza che
      affetta ogni essere umano, la sua posta
      in gioco esistenziale, compreso il prezzo che l’uomo paga per questo, cioè per
      l’orrore della sua incompiutezza.

  2. Sempre sull’incompletezza:

    “È così piacevole occuparsi di qualcosa che si conosce solo a metà, che non si dovrebbe biasimare il dilettante alle prese con un’arte che non imparerà mai, né dovrebbe essere lecito criticare l’artista che abbia voglia di sconfinare dalla sua arte in un terreno contiguo.”

    Johann Wolfgang Goethe, Le affinità elettive, 1809

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