Vita dura per i lacaniani

I lacaniani devono essere geneticamente diversi dagli altri psicanalisti. Hanno nemici.

Non che gli altri psicanalisti abbiano molti amici. Dai tempi di Freud, la psicanalisi non è fatta per procurarsi amici. Da quando nacque, 117 anni fa, la psicanalisi è sempre stata invisa al mondo. “Non fosse mai nata”, è il desiderio del mondo nei suoi confronti; un desiderio che finalmente sembra realizzarsi con la normalizzazione per legge della psicanalisi come professione psicoterapeutica. Finirà finalmente la “nuova scienza” con le sue imbarazzanti scoperte: il complesso di Edipo, la castrazione, il sapere che non arriva alla coscienza ecc. D’ora in avanti la psicanalisi sarà una terapia come tante altre, meglio se orientata in senso medico, e non farà più ricerca sui sogni della gente, sui suoi amori fallimentari, sui suoi odi imperituri. Meglio così per tutti. Socrate, il tafano di Atene, dovette bere la cicuta; Freud, il dottore di Vienna, oggi deve sorbirsi la psicoterapia.

Ma ecco la differenza; i lacaniani non solo hanno nemici latenti, cioè allo stato potenziale, comuni a tutti gli psicanalisti; hanno anche nemici manifesti, riservati solo a loro, che hanno il coraggio di uscire allo scoperto e di dichiararsi come tali e solo nei loro confronti.

Jacques Lacan
Jacques Lacan

L’ultimo episodio è la dura presa di posizione, sul domenicale del “Sole 24 ore” del 12 febbraio 2012, di un professore di immunologia, chiaramente esperto in meccanismi di difesa, contro l’autismo dei lacaniani; questi sprovveduti sarebbero a suo giudizio rei di seguire le cervellotiche teorie eziopatogenetiche del loro maestro, che “spiegava l’autismo con il concetto di «madre coccodrillo», invadente e castrante”, senza aggiornarsi sulle recenti acquisizioni genetiche in fatto di malattie mentali, di autismo infantile in particolare. Luoghi comuni, mai scontati abbastanza, riformulati in nome dell’empirismo scientifico.

Che dire?

Dico che l’empirismo esisteva ben prima della scienza moderna, la quale si affermò solo pochi secoli fa grazie ad alcuni principi generali metaempirici: il principio di inerzia in fisica, il principio della discendenza con (piccole) modificazioni in biologia. Se la psicanalisi si eleverà mai alla dignità di scienza non sarà perché avrà rispettato certi fatterelli, registrati in alcune riviste specialistiche, ma perché avrà proposto un grande principio teorico, come il principio freudiano dell’esistenza nel soggetto di un sapere incompleto, che non si sa di sapere. L’inconscio freudiano, infatti, anticipa di qualche decennio a livello soggettivo il teorema di Gödel dell’incompletezza dell’aritmetica, che stabilisce un “vuoto di sapere” a livello oggettivo. Ma l’immunologo, più medico che biologo, sembra ignorare questi grandi sommovimenti del pensiero; forse non li ama, quindi non sembra attrezzato a comprendere la rivoluzione scientifica freudiana.

Che fare? In che conto tenere certe ricorrenti contestazioni, sempre uguali, frutto di incomprensioni tanto ignoranti?

In psicanalisi la storia di queste incomprensioni non è di oggi; è lunga e data dall’origine della psicanalisi. In Francia risale alla scomunica di Lacan da parte della Società francese di psicanalisi. La mia amica Vannina Micheli-Rechtman ha scritto un libro molto dotto a difesa della psicanalisi, La psychanalyse face à ses détracteurs, che ha già visto la seconda edizione. Nel paese dei suddetti detrattori circola un manifesto a difesa della psicanalisi, redatto da un gruppo di psicanalisti in prevalenza lacaniani, che ha varcato le Alpi, generando un manifesto gemello in Italia, sempre di ispirazione lacaniana, e un analogo movimento di difesa della psicanalisi. (Dovrebbero essere movimenti a difesa dei consumatori, cioè degli analizzanti. Ma alla fine sono iniziative sindacali a difesa degli analisti).

Da noi, infatti, le cose non vanno molto meglio che in Francia. Hanno solo una tinta più squallida. Si risale al nostro locale “padre della psicanalisi”, che si riferiva a un noto lacaniano, facitore di congressi universali, nei termini di “magliaro della psicanalisi”. La cosa non si limitò allo scambio di battute odioamorose. Lo stesso padre ispirò la legge 56/89 per regolamentare le psicoterapie e istituire l’albo degli psicoterapeuti. L’intenzione “paterna” era di dare una regolata agli psicanalisti lacaniani, ritenuti “psicanalisti selvaggi”. Si sa come è andata a finire. Tutti gli ortodossi a vario titolo, compresi molti lacaniani, si sono fiondati a iscriversi all’albo. Alcuni hanno addirittura fondato scuole di psicoterapia. Della selvaggina non è rimasto neppure l’odore.

Perché succedono certe cose poco onorevoli? Poco onorevoli attacchi e difese poco meno che esaltanti?

Francamente non lo so bene. Premesso che sono poco incline alle spiegazioni eziopatogenetiche – sono medico, ma più incline alla matematica che alla medicina – tendo a pensare che siamo di fronte alla manifestazione spontanea di una diffusa volontà di ignoranza sia in attacco sia in difesa. In attacco si finge di ignorare la portata delle novità introdotte dai Galilei o dai Darwin; in difesa si sopravvaluta la portata della contestazione, impegnandosi in un contraddittorio che fa decadere il dibattito scientifico a diatriba da aula di tribunale tra P.M. e avvocati della difesa. Molto volentieri si dimentica che la scienza non si fa in tribunale, neppure nel tribunale della ragione, invocato dall’Illuminismo da Kant in poi. La scienza si fa proponendo congetture innovative e tentando di confutarle nel lavoro del collettivo di pensiero scientifico, dove non esistono né Corti supreme né Comitati di controllo. La scienza è una forma di democrazia, che neppure l’Atene di Pericle conobbe; chiunque può proporre una congettura; chiunque può confutarla, senza neppure ricorrere al voto popolare.

D’accordo, mi dicono. Ma perché questa collettiva volontà di ignoranza, che tu supponi, dovrebbe aizzarsi prevalentemente contro i lacaniani? Cos’hanno di specifico i lacaniani che gli altri non avrebbero? Perché i segugi italiani – nelle vesti di P.M. – andrebbero a caccia di lacaniani, che eserciterebbero indebitamente la professione psicoterapeutica, lasciando in pace per esempio gli junghiani? Che feromoni rilasciano nell’ambiente culturale i lacaniani da solleticare il fiuto di certi ficcanaso?

Qui una risposta ce l’avrei, ma esito a proporla perché è “lacaniana”, quindi di parte. L’eretico Lacan introdusse nella psicanalisi freudiana una metamorfosi epocale, che dopo un effimero successo – si pensi alle centinaia di frequentatori dei suoi seminari su Joyce – si dimostrò sul medio periodo decisamente impopolare. Lacan divenne famoso anche tra i profani per il suo programma di ritorno a Freud. Una frottola di facciata, buona per casciar l’articul – si dice a Milano – buona, cioè, per promuovere la vendita della psicanalisi sul mercato, che era già stato colonizzato da Freud. In realtà, Lacan superò Freud a tutti gli effetti, proponendo la transizione della teoria e della pratica psicanalitiche dal piano ontologico a quello epistemico. Questo non gli viene perdonato.

Calma, cosa vuoi dire in termini meno filosofici?

Si prenda il fenomeno principe della psicanalisi: il transfert, il cosiddetto amore (odio) di traslazione, secondo la terminologia ufficiale italiana. Per Freud il transfert era la riedizione attuale nel contesto della cura di un evento del passato, in genere traumatico. Gli eventi sono fatti ontologici, cioè manifestazioni temporali dell’essere: prima avvengono quelle di ieri, poi quelle di oggi. La precisazione che l’evento fosse “traumatico” era tipica di Freud, che ragionava in termini di causa ed effetto da medico qual era (o da P.M., quando denunciava i medici che esercitano la psicanalisi senza essersi addestrati alla sua scuola, per esempio nella Questione dell’analisi laica del 1926). Per lui ogni evento psichico era l’effetto deterministico, addirittura sovradeterministico, di un complesso di cause favorenti, predisponenti e determinanti. Lacan, che pure era psichiatra, lasciò decadere la nozione fortemente ambigua di trauma o di seduzione infantile (reale? immaginaria? con tutta la questione polemica sollevata a suo tempo da Masson) e si rivolse al sapere, non escludendo ovviamente il sapere inconscio, che non si sa di sapere. Allora, nelle mani di Lacan il transfert divenne un effetto del sapere, precisamente dell’interazione tra sapere del soggetto e sapere dell’altro. Di regola amo chi suppongo che sappia qualcosa del mio desiderio – supposizione tipicamente rivolta all’analista all’inizio dell’analisi; odio chi suppongo che non sappia qualcosa del mio desiderio – supposizione tipicamente rivolta allo stesso analista alla fine dell’analisi; Freud la chiamava “reazione terapeutica negativa” e non sapeva come pelarla, attribuendola a un’immaginaria pulsione di morte; prigioniero della stessa impotenza teorico-pratica, Lacan la chiamava “paranoia postanalitica”.

Allora, molto (certo non tutto) si spiega. I lacaniani titillano il sapere, quello inconscio compreso. “Padre, perdona loro, perché non sanno quel che fanno”, avrebbe detto di loro Gesù in croce. (Gesù fu uno dei primi lacaniani ante litteram a praticare la religione del Nome del Padre.) La gente, che non vuole sapere, odia i lacaniani tanto quanto odia il sapere. È un effetto automatico e spontaneo di transfert, inteso nel senso proprio della supposizione del sapere. “I lacaniani dicono di operare con il sapere. Ma io non voglio sapere, perché voglio godere. Perciò suppongo che i lacaniani veramente non sappiano e li odio, quado parlano di soggetto supposto sapere”. L’odio e la persecuzione sono la conseguenza paranoica della congettura epistemica negativa.

A questo punto, dovrebbe anche essere chiaro perché dall’odio siano risparmiati freudiani, junghiani, kleiniani e compagnia cantante: perché non presumono di sapere, perché non mettono sul tavolo la questione imbarazzante del sapere e soprattutto perché non sbandierano il loro sapere. Dovrebbero prendere esempio dai filosofi, Prudentemente i filosofi battono le vie tranquille dell’essere, non quelle impervie e scivolose del sapere. Tutti sanno che il primo filosofo epistemico della storia fu condannato a bere la cicuta; del secondo si favoleggia che fu vittima di un complotto dei Gesuiti nella gelida Stoccolma alla corte della locale grande regina. Già, i lacaniani dovrebbero essere solo un po’ più prudenti, politicamente parlando. La prudenza, virtù politica di prima grandezza secondo Tommaso d’Aquino, potrebbe rendere la loro vita se non dolce un po’ meno dura. Almeno non finiranno sul libro nero della psicanalisi né sul domenicale del “Sole 24 ore”.

 

Di Antonello Sciacchitano

Nato a San Pellegrino il 24 giugno 1940. Medico e psichiatra, lavora a Milano come psicanalista di formazione lacaniana; riceve domande d'analisi in via Passo di Fargorida, 6, tel. 02.5691223: E' redattore della rivista di cultura e filosofia "aut aut", fondata da Enzo Paci nel 1951.

5 commenti

  1. Il dibattito degli ultimi tempi è stato a dir poco deludente, quasi scoraggiante. E non parlo tanto degli editoriali del “Sole 24ore” o dei documentari di propaganda anti-lacaniani sull’autismo – l’imperituro attacco alla psicoanalisi non sorprende affatto – quanto per l’inefficacia di molte risposte e per il riflesso condizionato neo-corporativo che spesso prende il sopravvento e che ancora una volta non coglie la portata della questione. Alle provocazioni delle terapie cognitivo-comportamentali e delle scienze cognitive (che spesso sono tanto meno scientifiche quanto più urlano o hanno posizioni di potere) si finisce spesso per rispondere con l’ineffabilità dell’inconscio e con una cattiva metafisica del desiderio, che è perfino peggio. Le scienze cognitive accusano la psicoanalisi di essere poco scientifica e gli si risponde “andate un po’ più in là, che noi qui ci occupiamo d’altro”, quando se invece fossimo solo un po’ più furbi, saremmo noi ad accusarli di poca scientificità per i loro eccessi di empirismo da scienza baconiana seicentesca. Invece eccoci qui a guardarci dagli eccessi di umanesimo dei lacaniani o della loro pigrizia corporativa. C’è davvero gran poco di che esaltarsi!
    Invece ci sarebbero molte cose da fare. Mi piace in modo particolare il passaggio in cui dici che Gödel e Freud stabiliscono un “vuoto di sapere” a livello oggettivo. Non è un vuoto che si oppone al pieno della conoscenza. E’ il vuoto – intransitivo mi piacerebbe poter dire – che si esprime nella scienza come pratica dell’oggetto. Non è l’incompletezza del limite della conoscenza kantiana, è l’incompletezza che si fa oggetto. E’ lì nel mondo. Su questo sono d’accordo con Badiou: Gödel e Cantor sono materialisti.
    Invece si continua a spacciare la psicoanalisi come esperienza della finitudine che – come sappiamo – è una figura del senso e del significato (e quindi dell’interpretazione). Ovvero tutto il contrario del sapere e della sua trasmissiblità, anzi il senso è una resistenza al sapere. Su questo mi sentirei di essere un filo meno prudente di quanto tu proponi alla fine del pezzo. D’altra parte la scienza è un “tough job” come direbbero in america, ed è sempre sotto condizione politica, ideologica, da parte del capitale tecnologico (do you remember Althusser della filosofia spontanea degli scienziati?). La resistenza al sapere a volte assume anche una forma istituzionale, politica, persino militare, le cui fattezze sono molto meno amichevoli del tutto sommato innocuo editoriale domenica del “Sole”. Ma forse il mio è solo ribellismo (ormai non più) giovanile.

  2. Comment…Il prezzo dell’analisi

    L’intervista ad Armando Verdiglione pubblicata giorni fa su Repubblica ha l’indubbio merito di riprendere alcune questioni che da sempre interessano il funzionamento della psicoanalisi e le azioni degli psicoanalisiti. Al di là della questione giudiziaria sulla quale è corretto non fare commenti, è utile alimentare un serio dibattito su un tema anch’esso importante ed emergente che va al di là del caso Verdiglione: perchè sempre più spesso accade che gli psicoanalisti siano messi sul tavolo degli imputati?

    Perchè sono sempre più soggetti all’accusa di tramutarsi in ‘guru’ in cerca di adepti da irregimentare? Non passa giorno che voce non si unisca al coro di attacchi alla disciplina di Freud e ai suoi attuali nipoti. Non tanto all’analisi tout court, quanto alla cattiva psicoanalisi, per molti due cose sovrapponibili. Oltre al j’accuse di M. Onfray ‘Crepuscolo di un ‘idolo’, ci sono i pamphlet dell’intellighenzia europea ed italiana: il feroce e sbilanciato ‘Libro nero della Psicoanalisi’, ‘Il caso Marilyn M. e altri disastri della psicoanalisi’, il godibile ‘Alice nel paese degli analisti’, per finire con l’ottimo ‘Al di là delle intenzioni’ di Luigi Zoja.

    Ma se ben guardiamo la blogsfera (a tutti gli effetti il fronte delle voci più libere) la schiera dei detrattori e critici non è più solo formata da trinariciuti organicisti che negano tout court la validità dell’introspezione e non riconoscono lo statuto dell’inconscio, ma annovera tanti pazienti, o analizzanti, i quali possono solo accodarsi nelle innumerevoli discussioni sui forum per lagnarsi dell’inefficacia del trattamento analitico, o denunciare errori pagati a caro prezzo. E non solo economico. Fino a quando, di fronte ad una critica sempre più vasta e sempre più articolata, si percorrerà la via del ‘non è vero nulla’, rimandando un serio dibattito, restando indifferenti a queste istanze? Perchè si deve attendere l’intervento della magistratura per toccare questi temi scomodi? Gli aspetti da esaminare non sono solo quelli relativi alla ‘efficacia’ dell’analisi, elemento di per sé già difficile da valutare (e oggetto di innumerevoli dibattiti scientifici), ma anche le possibili controindicazioni che possono derivare da un’analisi inefficace. Non tutti sanno preventivamente che un’analisi sbagliata può causare seri danni, e che in caso di un rapporto deleterio, non esistono istanze alle quali fare riferimento. Chi va su un lettino oggi, non ha precise garanzie di terzietà, di protezione da errori.

    Ecco il vulnus principale dell’instrumentum analitico. In campo medico, se un’operazione va male, il malato può rivolgersi all’azienda sanitaria, al tribunale dei diritti del malato, o altro ancora. Nel campo della psicoanalisi, se una cura si inceppa o deraglia, purtroppo, non esiste luogo nel quale portare le proprie rimostranze. L’unica speranza è che l’analista abbia a fondo scavato nelle sue zone opache, quelle che conducono a errori, e se ne assuma la responsabilità tenendo quel posto senza fuggire. Il miglior modo per difendere la psicoanalisi è dunque renderla trasparente esaltando in tal modo la sua eccellenza, che fortunatamente continua ad esistere nonostante gli errori. Un analista che sbaglia diagnosi, magari distratto da altre cose, o semplicemente con un lavoro su se stesso stagnante, espone il paziente a rischi talora altissimi. Il ‘controtransfert’ è quella risposta relazionale ed emotiva dell’analista verso il paziente, utile nel processo analitico fino a quando non diventa una pioggia di detriti che provengono dall’analista, il quale senza controlli, può scaricarli sul malcapitato paziente. Il paziente che, come insegna l’analista francese J.A Miller, è sempre ‘innocente’ quando entra nello studio con lettino. Chi non ricorda l’analista Moretti de ‘La stanza del figlio’, irritato perché il paziente Orlando con un ritardo ha fatto sì che lui non fosse vicino al figlio nel momento della disgrazia? Ecco, quella scarica di rabbia che gli riversa addosso in seduta, è un controtransfert incontrollato. Lacan tratta la questione del controtransfert : (…) Come è scritto da qualche parte, ‘se si trascurasse quell’angolo dell’inconscio dell’analista, ne risulterebbero delle vere e proprie zone cieche, da cui conseguirebbero evetualmente nella pratica fatti più o meno gravi e incresciosi: misconoscimento, intervento mancato o inopportuno, o persino errore’. Cosa garantisce al paziente che, accortosi di questo, l’analista immediatamente lasci quel posto e non arrechi danni? Nessuno. Quello che, specie oggi, è necessario ribadire, è cha la psicoanalsi è essenzialmente e primariamente il luogo della rettifica della propria esistenza, delle’ minchiate del vissuto’ e della ‘storia personale del soggetto’. Qualsiasi altra cosa entri nella stanza del lettino, rapporti di lavoro, scambi teorici, presenza mediatica, falsa il percorso e lo fa deragliare su binari del maestro-discepolo, via che conduce direttamente ad una condizione diadica fasulla che può avere effetti collaterali devastanti per l’analizzante. Il movimento psicoanalitico garantisce terzietà? Per esserlo, è necessario che chi apre le porte alla gentilezza sia, in questo caso, gentile, parafrasando al contrario la lezione di Brecht. E’ fondamentale che lo psicoanalista sia, al netto della conduzione della cura, inserito in una rete, più ampia, che possa osservare ed eventualmente correggere eventuali errori. Sia insomma ‘giudicabile’. Come evitare, come riporta Paracchini in un articolo del Corsera, che: ‘un ego fuori ordinanza, un eloquio coinvolgente che fa breccia nel pubblico femminile’ non siano nocivi per i pazienti, oppure non portino a creare ‘adepti che sembrano una setta’?. Il neo presidente della IPA Stefano Bolognini dà una indicazione preziosa, ma purtroppo inascoltata, asserendo che la sovraesposizione mediatica dello psicoanalista danneggia il paziente. Si dirà: questo problema vale per tutte le discipline del mondo psy. Vero, parzialmente. Non va dimenticato che l’analisi è un luogo particolare, una sorta di ‘no mans land’ nella città, uno spazio vuoto, una zona franca addobbata con gli affreschi della propria esistenza, che noi diamo in custodia all’analista. Si può paragonare il setting analitico ad un’officina nella quale, grazie ad un buon avvitatore, tutte le viti della macchina vengono allentate. Svitate quel tanto che basta perchè il guscio mostri la sua mobilità, e si possa giungere all’anima del motore. Una destrutturazione guidata. E’ la terra di un uomo che piange e rimemora il passato, un uomo che sogna e in quel luogo sa di poter proiettare le diapositive più intime perchè garantito dalla sicurezza. Ecco perchè gli errori possono avere effetti così gravi. Quando le viti sono allentate, i colpi accidentali vanno più in profondità, si riverberano sull’intera struttura. Le scuole psicoanalitiche hanno sviluppato gli anticorpi per saper contenere e correggere questi svarioni? Il mondo scientifico chiede alla psicoanalisi alcune cose che la disciplina di Freud e Lacan non può dare : verificabilità, standardizzazione dei dati,
    questo perchè la psicoanalisi è essenzialmente ‘uno per uno’. Ma garanzie verso il paziente quelle sì. Oggi quelle devono essere fornite. “L’analista, dico, da qualche parte, deve pagare qualcosa per reggere la sua funzione. Paga in parola, paga con la sua persona. Infine, bisogna che paghi con un giudizio sulla sua azione’ E’ il minimo che si possa esigere” . E’ rispettata questa massima di Lacan? La via indicata da questa massima mette al riparo da derive giudiziare, e garantisce un percoso più salutare per il paziente.

  3. Comment…

    Il suo intervento è prezioso perché esemplifica in modo paradigmatico e in termini chiari e pacati una diffusa doppia fallacia. Presuppone che
    1. la psicanalisi sia una cura medica;
    2. la medicina sia una scienza.
    Conosco bene queste fallacie per averle personalmente attraversate e dismesse.
    Sono anch’io medico e anch’io da “piccolo” pretendevo curare le donne che venivano da me per “guarire” dalla frigidità. Con il tempo ho capito che la frigidità era il loro godimento, che non volevano assolutamente cambiare, sapendo che era un modo di godere alternativo a quello fallico. Ma non voglio parlare di casi personali. Voglio solo smontare brevemente le fallacie su cui si basano le sue considerazioni.
    1. La psicanalisi non è una cura medica, ma un esercizio di pensiero orientato al cambiamento della vita, come predica un autore oggi alla moda, Peter Sloterdjik. I danni che possono verificarsi per il soggetto durante il percorso di cambiamento non sono dovuti a una cattiva applicazione di direttive terapeutiche, prestabilite da qualche codice di patologia medica. Fanno parte della vita, che non si può cambiare impunemente. Occorre solo che l’analista eserciti molta prudenza prima di accettare una domanda di cambiamento di vita. Non occorre che sia un bravo medico. (Io non sono bravo medico; mio padre era migliore medico di me).
    C’è una seconda considerazione decisiva. La cura medica restituisce uno stato premorboso. In analisi, volta al cambiamento dello stile di vita, non c’è nessuno stato premorboso da reintegrare. Si tratta di inventare un nuovo modo di vivere e il tentativo può fallire. Lo si sappia bene.
    2. La medicina non è una scienza. Non deve abbagliare la pesante bardature tecnologica della medicina contemporanea. La medicina applica, in modo sempre più ingegneristico, tecniche elaborate altrove. Non è neppure capace di inventare tecniche proprie; si limita a importarle al letto del malato dalla chimica, dalla fisica, dalla biologia e sempre più spesso dall’ingegneria. Il medico non elabora (non deve elaborare!) congetture proprie; non è in grado di falsificare un’ipotesi scientifica; si limita a confermare in clinica la dottrina ricevuta durante la “conformazione” universitaria e ribadita dalle direttive ministeriali.
    È così che lei vorrebbe che funzionasse un analista? È così che vorrebbe che i risultati delle cure analitiche fossero verificabili e standardizzabili?
    Credo di sapere la risposta di Freud, che pure era afflitto come lei dalla sua stessa fallacia medicale, e combatteva contro i medici che esercitavano la psicanalisi senza essere analizzati, invece di riconoscere che la medicina inquinava la sua stessa metapsicologia, che era una dottrina eziopatogenetica di stampo medico.
    Certo, si tratta di pregiudizi collettivi. Difficile dismetterli. Se mai, per grazia divina, dovessimo riuscire a liberarcene, è praticamente certo che vedremmo meno analisti in tribunale e meno analisi sui libri neri.

    1. Comment…

      Quanto lei dice pone un serio problema, strettamente connesso allo statuto epistemico della psicanalisi: il problema del legame sociale degli psicanalisti. Per lo più nelle scuole ortodosse (sono tutte ortodosse per la propria ortodossia) vige un legame imposto dall’alto, che ha solo valore formale ed è senza contenuto. Gli analisti devono credere certe cose per appartenere, quindi esistere. Ma ciò in cui credono non ha alcun valore morale, alcuna risonanza etica: è pura etichetta. Perciò gli analisti non rispondono alla legge, come lei giustamente osserva, e… cadono come pere cotte nelle mani dei PM, con l’accusa di esercizio indebito della psicoterapia.
      Se invece esistesse un legame orizzontale nel corpo anaitico, uno scambio di sapere tra analisti…
      Al prossimo post sul legame sociale tra analisti.

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